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Memoria e Ricerca

Storiografia, riviste e reti: una transizione avviata?

di Rolando Minuti
in Memoria e Ricerca n.s. 8 (2001), p. 199


Sul fatto che le nuove tecnologie della comunicazione avrebbero determinato conseguenze rilevanti ed aperto un orizzonte nuovo di opportunità anche in ambito umanistico e storiografico, con particolare riferimento a quel versante decisivo per la comunicazione della ricerca che è tradizionalmente costituito dalle riviste, vi erano pochi motivi di dubbio sin da quando - i primi anni '90 - il web si è proposto e progressivamente affermato come sistema di riferimento dominante della comunicazione, in ogni settore. Chi ha inteso sperimentare sin dalla metà degli anni '90, come chi scrive, le nuove opportunità che si aprivano per la comunicazione scientifica mediante le riviste elettroniche, seguendo la traccia che in altri contesti culturali - in primo luogo, come sempre quando si tratta di processi connessi all'innovazione tecnologica, gli USA - si andava già da alcuni anni praticando, e sull'esempio di quanto sul versante delle scienze matematiche, fisiche e naturali risultava già efficacemente sperimentato, si è reso rapidamente conto di quanto significativi e rilevanti fossero i mutamenti potenziali.

E' appena il caso di richiamarne sinteticamente i punti essenziali, senza insistere ulteriormente nell'illustrazione di aspetti che ormai sono ampiamente noti e sui quali c'e' ormai una letteratura critica fin troppo abbondante.

Le riviste elettroniche

     

  • consentono una rapidità nella comunicazione dei risultati della ricerca incomparabilmente maggiore rispetto ai tempi mediamente lunghi - a volte insopportabilmente lunghi - propri delle pubblicazioni cartacee. Aspetto delicato, evidentemente, soprattutto per le scienze "dure", per le quali il tempo della comunicazione del contributo o della scoperta assume un'importanza particolarmente rilevante; e non a caso sono questi i settori che prima e con più decisione si sono mossi nella direzione di un'utilizzazione sistematica delle risorse della rete.

     

     

  • consentono una circolazione incomparabilmente più ampia dei risultati della ricerca rispetto alle possibilità date dalla pubblicazione cartacea, potendo giungere dirattemente ad ogni terminale collegato alla rete.

     

     

  • consentono una possibilità di aggiornamento ed una modificabilità pressoché illimitate dei risultati della ricerca, una loro estensibilità (in termini di bibliografie, di integrazione con documenti e testi, di appendici multimediali), che non hanno rapporto con le possibilità consentite dalle pubblicazioni cartacee; offrono inoltre la possibilità di stabilire un rapporto interattivo con gli autori - mediante l'apertura, per esempio, di tribune di discussione e di forum su temi specifici, collegati a specifici contributi - che non erano precedentemente ipotizzabili.

     

     

  • consentono un contenimento sostanziale dei costi di produzione tipografica e dei costi relativi alla gestione (conservazione e accesso) delle riviste cartacee; problemi che, a fronte di una crescita continua dei costi di abbonamento alle riviste e dei problemi realtivi alla loro gestione da un punto di vista bibliotecario, trovano sul versante dell'elettronica possibilità di soluzione particolarmente efficaci.

     

Tutto questo consentiva di prevedere, sin dai primi anni '90, uno sviluppo forte di iniziative nella direzione delle riviste elettroniche, che, se non avrebbe portato ad una immediata crisi del "castello di carta" che regolava e in certo modo imprigionava l'intero mondo dell'editoria scientifica (come da parte di molti si è andato subito profetizzando) avrebbe portato, si pensava, ad una sostanziale riconfigurazione dei quadri di riferimento, e delle strategie, della "pubblicazione".

Tutto questo in parte è avvenuto, soprattutto anche se non esclusivamente sul versante statunitense, in parte no, e sulle ragioni delle linee di sviluppo che hanno avuto successo e dei ritardi che ancora contrassegnano un'adeguata utilizzazione delle nuove tecnologie vale la pena di fermare l'attenzione, per non cadere ancora una volta nelle trappole di una visione manichea che, sin dall'affermazione del web, divide tecnoentusiasti da tecnoscettici, e per cercare di dare all'ordine dei problemi una lettura più critica, realistica, e forse più produttiva di risultati utili.

Si fa frequente riferimento, a questo proposito, al problema di una mentalità e di una consuetudine nella pratica della ricerca e della comunicazione storica che fanno fatica ad adeguarsi a mutamenti che si impongono nella transizione da un lavoro che ha una sua base di riferimento tradizionale e consolidata nel documento cartaceo, ad una prassi che trova invece nel computer e nelle reti i propri strumenti essenziali. E si tende a vedere la risoluzione dei problemi in un progressivo, più o meno lento a seconda dei contesti ma comunque inevitabile, adeguamento della prassi tradizionale che regola la ricerca e la pubblicazione alle nuove tecnologie, la cui evoluzione sarebbe più rapida, troppo rapida, rispetto ai tempi necessari per un suo completo assorbimento - in termini di comportamenti e di attitudini - all'interno del quadro di riferimento proprio delle discipline umanistiche e storiche. Tutto questo è in parte vero, ma non consente a mio avviso, se ci si limita a quest'ordine generale di considerazioni, una corretta considerazione del problema

In realtà, alla base anche di questa, per molti aspetti faticosa, evoluzione di mentalità stanno - soprattutto nel contesto italiano - problemi specifici e molto più concreti. Ed un primo problema che si impone con chiara evidenza, e che, se non giustifica lo scetticismo di molti avversari dell'editoria elettronica, contribuisce tuttavia a spiegarlo e a cercare con maggiore chiarezza vie di soluzione condivise e sicure, sta certamente nello statuto normativo ancora labile che regola la pubblicazione scientifica elettronica, con particolare riferimento alle pubblicazioni periodiche on-line.

Dove manca, come nel caso italiano, un ordine di regole che definiscano il deposito legale delle pubblicazioni elettroniche fruibili on-line, e dove non sono chiari, conseguentemente, termini legali relativi al copyright, all'archiviazione delle pubblicazioni on-line e alla responsabilità della loro gestione, è evidente che lo scetticismo nei confronti delle pubblicazioni elettroniche rispetto alle pubblicazioni cartacee - che hanno alle spalle un quadro ed una tradizione normativa consolidata e riconosciuta - sia destinato a perdurare e ad ostacolare lo sviluppo di nuove esperienze. Che questa lacuna sia un fatto reale ci sono pochi motivi di dubitare. Le discussioni ed i progretti sulla revisione, lungamente attesa, della legge del 1939 - con successive modificazioni - relativa al deposito legale delle pubblicazioni, e sulla sua sostituzione con un ordine di regole più adeguato ad una realtà sociale, civile e culturale radicalmente diversi rispetto al contesto originario, caratterizzato sostanzialmente da esigenze di polizia e di controllo, non si sono ancora tradotte in un nuovo quadro normativo che includa in termini adeguati all'attuale dimensione della comunicazione l'ambito dell'editoria elettronica on-line.

Le roventi polemiche recentemente sollevate dalla nuova legge sull'editoria (n. 62 del 7 marzo 2001), che impone ai responsabili dei siti regole di registrazione che non appaiono appropriate alla dinamica e alle esigenze della realtà che stiamo vivendo, hanno chiaramente messo in luce le incongruenze e le difficoltà di applicazione di norme che ancora risultano profondamente legate al quadro di riferimento definito dalle pubblicazioni cartacee, mentre invece risulta sempre più urgente un riesame complessivo ed organico di tutti i versanti della realtà editoria che offra garanzie di libertà in termini di rispetto di nuove regole, ivi compresa quella relativa al deposito legale delle pubblicazioni on-line.

Il problema del deposito legale assume una particolare importanza per l'intero ambito dell'editoria scientifica, perché da esso dipende, in larga misura, il problema dell' "autorità" delle pubblicazioni prodotte in formato elettronico e fruibili on-line, che ha ricadute di grande rilievo non solo dal punto di vista della valutazione dei "titoli" scientifici a fini accademici, ma, più in generale, per l'importanza che una chiara paternità dei contributi assume in relazione alla ricomposizione futura della storia culturale del nostro tempo.

Certo, il riconoscimento scientifico della comunità internazionale, che utilizza sempre più direttamente documenti esclusivamente elettronici, anche in ambito storiografio, spinge progressivamente verso l'equivalenza tra cartaceo e digitale, ma dove ciò non si unisce ad un quadro di riferimento normativo chiaro, le ambiguità e le difficoltà, e i conseguenti scetticismi, sono destinati a perdurare; e ciò può determinare il mantenimento dell'editoria elettronica in una dimensione di affiancamento ancillare rispetto all'editoria cartacea (i pre-prints, le edizioni elettroniche successive all'edizione cartacea, dove le norme di copyright e l'accordo con gli editori lo permettono, e via dicendo), certamente lontana rispetto ad una realtà in base alla quale si dovrebbe avere prima il documento elettronico - depositato e archiviato secondo procedure riconosciute e condivise - e poi, quando lo si ritenesse necessario e nelle forme giudicate più opportune, le eventuali versioni cartacee.

In altri termini, è intorno alla definizione di un quadro di regole che, a mio parere, è possibile definire i termini di un progressivo e sicuro mutamento di costume, di mentalità, di comportamenti accademici e via dicendo; altrimenti rimarremo ancora a lungo invischiati nelle disquisizioni teoriche sul "materiale" ed il "virtuale", che seppure interessanti da molti punti di vista, non aiutano molto a trovare soluzioni concrete che consentano di utilizzare in modo serio le opportunità reali ed importanti che vengono dalle nuove tencologie. La transizione dal cartaceo al digitale, anche in ambito storiografico, passa in misura rilevante a mio parere, oltre che dalle opportunità e dalle promesse della tecnologia, sui cui torneremo più avanti, anche da questi elementi.

D'altra parte, se quanto detto spiega, almeno in parte, difficoltà e incertezze nell'affermazione di nuove riviste elettroniche - e può giustificare il fatto, apparentemente incomprensibile, che, in una realtà già profondamente orientata verso la rete, nuove e costose riviste cartacee continuino a nascere - rende più difficile spiegare, anche in Italia, perché sia tanto difficile e complicata la realizzazione di progetti volti a rendere fuibile in-rete quello che è già disponibile in cartaceo. Non occorre neppure richiamare, in questa sede, il fatto che poter disporre di indici, di abstracts e dei testi integrali, recuperabili per parole chiave, di tutte la annate di riviste importanti, costituisca un aiuto formidabile per lo studio e la ricerca. E sarebbe auspicabile che, per portare solo qualche esempio particolarmente noto ed eclatante, quanto fatto negli Usa con JStor (che offre l'accesso full-text alle collezioni complete di un numero rilevante di riviste importanti, di cui oltre una decina di argomento storico) o con il progetto MUSE della Johns Hopkins University (un centinaio di riviste umanistiche, nell'ultimo rilevamento efffettuato, fruibili integralmente in rete), potesse essere fatto anche da noi, con una banca data delle più importanti riviste della tradizione storiografica nazionale, per esempio. In questo caso la questione non è tanto relativa alle nuove regole, ma riguarda piuttosto il livello della decisione e della volontà - che investe gli atenei, le strutture bibliotecarie, i singoli soggetti del mondo editoriale - e comporterebbe il reindirizzamento, o il sensibile potenziamento, dell'investimento di risorse verso questo tipo di iniziative, che peraltro possono determinare, come nel caso di Jstor, un ritorno economico interessante.

Il problema delle potenzialità che le nuove tecnologie aprono per la storiografia, e per le riviste storiche in particolare, è certamente assai vasto e complesso, ma un dato è forse opportuno richiamare, in relazione soprattutto all'euforia tecnologica di questi ultimi tempi e come elemento di riflessione utile per un inquadramento corretto dei problemi.

Il problema, alla radice, osservando solo il versante tecnologico - e configurando i problemi della scrittura e della comunicazione storiografica in termini di puro e semplice adeguamento ad un'evoluzione tecnologica intesa come soggetto trainante e naturalmente progressivo -, potrebbe essere posto in questi termini: ha ancora un senso la nozione di "rivista storica"? ha ancora un senso la funzione dell'editore di rivista, storica o d'altro tipo?

E' un problema che puo' essere esemplificato in modo immediato pensando al fatto che concretamente mi è possibile, con la tecnologia già disponibile, delegare ad un software il compito di scandagliare la rete (banche dati, mailing-lists, newsgroups, etc.) alla ricerca di testi e documenti che interessano un particolare argomento; posso poi affidare a questo software il compito successivo di organizzare il risultato della ricerca in una struttura ordinata, di tradurla nel formato di visualizzazione che preferisco, di impaginarla. Alla fine, se proprio sentirò la mancanza del contatto con la carta, potrò affidarmi ad una macchina del tipo Xerox-Document-Binder-120 - o simile - ed avere, da un lato, un imbuto in cui far confluire l'informazione elettronica, e dall'altro una porta da cui vader uscire un libro, stampato sulla carta della qualità e del colore che preferisco, con i caratteri che preferisco, con la rilegatura che preferisco.

Bene, quando avrò fatto tutto questo - cosa che non ho sperimentato direttamente ma che è certamente possibile fare, e risulta concretamente praticato, per molti tipi di documentazione - che cosa avrò ottenuto? Avrò ottenuto un oggetto assemblato al cui interno troverò una notevole quantità di materiale che risulterà sostanzialmente inutile ai fini della mia ricerca; una quantità di testi, frasi, interventi, che dovro' impegnarmi faticosamente a tagliare e a selezionare per ricavarne, se sarò fortunato, quelle poche cose che risulteranno veramente utili per farmi fare qualche passo avanti reale nel lavoro che sto conducendo. Alla fine, molto probabilmente, potrò verificare che quelle poche cose utili provengono da riviste, o banche dati, che prevedono un qualche sistema di controllo scientifico.

La semplice ricerca automatica, mediante un motore di ricerca generalista, è destinata sistematicamente a pormi di fronte a quest'ordine di problemi. Occorre tener sempre presente che un motore di ricerca generalista, qualsiasi motore, è mediamente "stupido", nel senso che non è in grado di valutare contenuti, ma semplicemente di rilevare segnali, tracce testuali individuate all'interno del documento elettronico o termini volutamente evidenziati dall'autore del documento come meta-names, e che pertanto l'effetto di "risposta indesiderata" che ne deriva , e che tutti coloro che usano il web hanno sicuramente sperimentato, risulta pressoché inevitabile e sistematico. Nessun motore è in grado di dirci: questo è buono, questo è cattivo, questo è scientificamente serio, questo no. Questo è un lavoro che dovro' fare io (o un comitato di lettori, di analizzatori, di "studiosi" in una parola), ed è un lavoro tanto più difficile e penoso quanto più la risposta informativa che mi viene dai motori risulta, apparentemente, ricca e abbondante.

E allora vale richiamare una verità che può apparire banale: una rivista storica, cartacea o elettronica, non è solo il veicolo, definito da un certo stadio dell'evoluzione tecnologica, di documenti e ricerche che si distinguono dai libri essenzialmente per la loro dimensione (mediamente si tratta di contributi più corti, a parte casi eccezionali ), o per il fatto di intervenire più direttamente su questioni e problemi storiografici correnti (attraverso recensioni, note, discussioni, rassegne); una rivista storica è solo in parte questo, ma in parte assai più rilevante, dal punto di vista scientifico, è il risultato di strategie di selezione e di organizzazione della ricerca, il risultato di un "programma culturale" che rivela una responsabilità e in ultima analisi una decisione (cosa pubblicare e cosa non pubblicare, in che direzione sollecitare interventi e collaborazioni, su quali temi sollecitare l'attenzione, e via dicendo). Responsabilità e decisione che sono, in ultima analisi, l'esercizio dell' autorità scientifica, ed il fondamento della credibilità, della riconoscibilità, dell'utilità, per la comunità scientifica, di una rivista.

Occorre allora evitare di vedere nella tecnologia, nel suo stadio attuale e nei suoi possibili sviluppi, l' intero ordine dei problemi, con l'illusione aggiuntiva, sulla quale sarebbe forse il caso di cominciare ad essere più critici, che in internet si trovi tutto e sia solo sufficiente cercarlo, che il vecchio mondo della cultura è già travasato nella rete ed ha solo bisogno di navigatori e di mappe - da qui il grande business dei portali - per essere recuperato. Si tratta di "illusioni", per le quali risultano interessanti le considerazioni svolte da Salvatore Settis a proposito del problema più generale dei beni culturali digitali, che ben possono essere riproposte anche per la storiografia. In internet non si trova affatto tutto, e quello che si trova è attualmente assai eterogeneo e assai debolmente regolato da standard condivisi; la transizione dal cartaceo, o dal materiale, al digitale è certamente in corso, ma ha un bisogno estremo di avvedutezza critica e di responsabilità.

Da questo punto di vista, per tornare al tema delle riviste storiche, la natura e lo scopo del lavoro di un editore di rivista elettronica, come ha scritto bene Michael Grossberg, direttore della American Historical Review, in un intervento su Perspectives on-line, non cambia affatto rispetto al lavoro di una rivista storica tradizionale: selezione, controllo, strategia culturale, gestione di un sistema di peer-review, ossia, complessivamente, verifica di qualità da parte della comunità scientifica. E allora, rispetto alla domanda prima richiamata sulla necessità e l'utilità, nella realtà della comunicazione telematica, delle riviste storiche, di nuove riviste storiche elettroniche o di una nuova versione elettronica di più antiche e consolidate riviste storiche, si deve rispondere che non solo questa esigenza non è diminuita, ma si è molto accresciuta così come la responsabilità ed il ruolo dell'editore di riviste elettroniche risultano esaltati. E questo anche per un altro motivo che si impone nella sua evidenza: ciascuno con la rete - è un fatto universalmente noto - può essere l'editore di se stesso, può proporre i propri lavori, i propri studi, le proprie riflessioni, della più varia natura, ad un pubblico di lettori planetario, senza bisogno di intermediari (editori, stampatori, comitati scientifici etc.) e, a questo punto, senza particolari spese per l'uso delle risorse di rete. Se questo "effetto democratizzante" indiscutibile della rete, come riconosce anche Grossberg, deve essere mantenuto, come fatto positivo e non come residuo negativo inevitabile, è anche chiaro che la funzione dell' intermediario, non più obbligatoria per ragioni tecniche o economiche, torna ad essere essenziale ed ancora più delicata e urgente in termini di responsabilità culturale. Scegliere, selezionare e accogliere contributi alla ricerca in quanto corrispondenti ad uno standard condiviso di qualità - alla "scienza normale" per usare termini kuhniani - risulta fondamentale, non più in termini di inclusione-espulsione ( e condanna alla non visibilità, alla non leggibilità, come nella realtà regolata dalla carta ), per ragioni che possono ingiuste ed anche extra-scientifiche, ma in termini di riconoscibilità e, sul versante dell'utenza della rete, di libertà di scelta, di consapevolezza della natura dei contesti che offrono informazione, ed in ultima analisi di maggiore efficacia nel reperimento delle informazioni desiderate. Il livello della responsabilità, da parte di chi gestisce una rivista storica nella realtà della comunicazione telematica, ne risulta evidentemente accentuato per il semplice fatto che l'esclusione di contributi che possono avere una forte dignità scientifica e che possono comunque essere letti e valutati, al di fuori di sistemi di selezione e di criteri di ordine, espone gli organizzatori di cultura che si muovono nella rete (e gli editori di riviste sono componente importante in questo quadro) ad una verifica di credibilità. Quando una rivista elettronica, che ambisce ad uno status scientifico, si rivelasse non in grado di rispondere a questi requisiti, non sarebbero più sufficienti le cornici accademiche, istituzionali, associative, la tradizione stessa, a decretarne il successo; semplicemente sarebbe meno consultata - gli analizzatori di accessi danno un contributo interessante a questo riguardo - , il suo prestigio decadrebbe necessariamente, e alla fine sarebbe inevitabilmente marginalizzata. Tutto questo implica ovviamente anche un problema delicato di "power relations" che risulta necessariamente riconfigurato con la rete, e che investe direttamente anche l'organizzazione della ricerca universitaria; troppo complesso per essere affrontato in questa sede.

Per concludere, appare ormai chiaro che la transizione dal cartaceo al digitale sia decisamente avviata anche per le riviste dell'ambito umanistico e storiografico; ce lo dicono le statistiche, lo sviluppo delle iniziative, i programmi avviati. Ma perché questa transizione si attui pienamente nella maniera auspicabile da parte di chi fa ricerca storica è indispensabile, da un lato, vedere e superare gli ostacoli normativi, molto concreti, che ancora si frappongono al suo compimento, dall'altro concepire l'intero processo non semplicemente come adeguamento ad un'innovazione tecnologica che segue un suo corso naturale e inarrestabile, e alla quale ci si deve semplicemente e ciecamente conformare, ma come un diverso e più complesso scenario della responsabilità scientifica in cui la componente tecnologica (informatica) e la componente culturale, storiografica nel caso specifico, dovranno sempre più procedere in maniera affiancata, nella prospettiva - che mi sentirei di definire, per vizio professionale, neo-illuministica - di una nuova consapevolezza critica di ciò che le nuove tecnologie sono in grado di offrirci e degli obiettivi che ci poniamo mediante il loro uso.