Cerca

Soci e partner

Provincia di Ravenna

Comune di Ravenna

Fondazione del Monte

Cassa di Risparmio di Ravenna

Regione Emilia-Romagna

Ministero della Cultura

Quaderni del Cardello

La Fedra di Oriani

by Marco Debenedetti
in v.s. (), 11


 
 
                                          A Enzo Siciliano
 
   Grazie dei complimenti: ho tre volumi inediti sul tavolo, ieri consegnai un dramma.
   È fecondità? È putredine?[1]
 
 
 
   Con queste parole – come di consueto un miscuglio di baldanza e irosa insicurezza – Alfredo Oriani annunciava all’amico Salvatore Montanari, in una lettera dell’11 novembre 1899, l’inizio della propria carriera di drammaturgo. Il testo menzionato è La logica della vita, primissima compiuta opera teatrale dello scrittore, ultimata il 24 settembre dello stesso anno. Il 2 maggio 1900, sei mesi più tardi, troviamo una lettera al critico Antonio Cervi, in cui di nuovo si allude al copione, invano offerto alla celebre attrice Irma Gramatica; di lei, cercando di ingraziarsela, Oriani aveva addirittura scritto un ritratto, pubblicato come prefazione al volume Irma Gramatica dello stesso Cervi[2]; conclude così sprezzantemente lo scrittore:
 
   La figurina, per la quale mi ringrazi, è troppo bella per essere vera. Ritira il copione. Se fischieranno, secondo la profezia dell’Irma, il guaio sarà piccolo. Il mio dramma non è di maniera, né vecchio, né nuovo; l’ho scritto nell’oblio più ingenuo e superbo del pubblico colla stessa sincerità di un libro. Desidero la prova della ribalta come un esperimento sul pubblico stesso, per vederlo una volta in faccia a qualche cosa di semplice e di vero.[3]
 
 
 
   Nel 1899, Alfredo Oriani era un uomo di quarantasette anni. Da ventotto – da quando cioè aveva conseguito la laurea in legge, prima a Roma e poi a Napoli, nel 1871 – si era rinchiuso in un cupo e angoscioso isolamento, nella campagna intorno a Casola Valsenio, nella dimora paterna del Cardello; inseguendo, con una testardaggine portata sin quasi all’autodistruzione, quell’immagine di grande, profetico scrittore, destinato ad essere la guida della Terza Italia appena uscita dalle lotte risorgimentali, che sentiva essere l’unica degna del proprio talento. Sette romanzi; due volumi di racconti; uno di poesie; tre opere storico-filosofiche, fra cui La lotta politica in Italia, con cui Oriani aveva voluto ricostruire integralmente la storia del nostro Paese, gettando uno sguardo anche sul futuro, ed affidando ad essa intero il proprio destino; quel che più conta, fra essi i due splendidi, miracolosi romanzi Gelosia e Vortice, rispettivamente del 1894 e del 1899, che appartengono di diritto alla vicenda del grande romanzo europeo dell’Ottocento, e che ancora oggi giustificano la nostra presenza in questa sala: tale era, fino a quel momento, il bilancio di un lavoro quasi trentennale. Lavoro che invece di attirare allo scrittore il plauso e l’attenzione dei propri contemporanei, come da lui disperatamente desiderato, era caduto, sprofondato quasi, nel più mortificante silenzio, costringendolo alla solitudine e all’indigenza; una solitudine in cui era tanto più difficile sopportare la serie infinita di disgrazie familiari, vere o presunte, che gli erano piombate addosso. Come potesse apparire Oriani in quegli anni ce lo testimonia con esattezza fotografica il critico più acuto che abbia indagato lo scrittore, Renato Serra, fondandosi con ogni probabilità su resoconti di diretti spettatori: «[...] lui signorotto di montagna, in lite col padre e con le finanze asciutte, con la casa diruta in quel paese selvatico, nel quale si sa che passa i lunghi inverni e le calde estati fra i monti, a rodersi in mezzo a dei villani, pensando – questo la gente lo capisce – alla città grande dove non può vivere, ai salotti, ai teatri, al Parlamento; ed ecco, ogni tanto, in certi periodi ogni giorno, in certi altri dopo lunghe assenze, ne viene giù al caffè, al circolo; grande della persona, squadrato duramente, fieramente impostato, portando la barba incolta e il viso aspro e gli abiti un po’ grossolani con quella stessa affettazione con cui ostenterebbe una bellezza e una eleganza che non può avere, che fa il montanaro non potendo fare il cittadino, che fa il rustico non potendo essere il festeggiato, che accetta la partita al caffè, la conversazione sotto i portici, i pettegolezzi di provincia con quello stesso animo con cui assaporerebbe – i maligni se lo dicono fra loro, quando lui non c’è – assaporerebbe gli omaggi e gli applausi del mondo con voluttà amara; che ogni tanto scappa a Bologna, nella bottega del libraio, nel foyer del teatro, nel restaurant notturno, e pratica il Panzacchi e i giornalisti e gli amici e i conoscenti più famosi o più fortunati di lui, con una sorta di negligenza aspra, insieme con una vanità profonda di mostrarsi diverso da loro, non ossequiente a loro, di discutere, di contrastare, di stupire: il che, del resto, fa con tutti, prodigando nella conversazione, nel salotto o nella bettola, la sua parola mordente, il suo fare arrogante, autoritario, la sua maldicenza, la sua indipendenza, le sue idee, la originalità, insomma, di se stesso»[4].
   Che cosa ha spinto un uomo che già si era messo alla prova in una produzione creativa così ampia e così aperta alla sperimentazione, che andava dalla poesia alla narrativa, dalla filosofia alla storia, ed insieme così originalmente colpito dalla vita, provvisto di un destino così marcatamente individuale, a tentare anche la via del teatro?
   Alla base della nuova fase della produzione creativa di Oriani troviamo due fattori fondamentali. Da un lato una motivazione esteriore: la decisione di scrivere per la scena è il momento estremo di quella ricerca di contatto con l’esterno, col pubblico, non privo anche di consistenti risvolti economici, che sappiamo essere sempre stata una delle grandi preoccupazioni del faentino – come tra l’altro amplissimamente documentato nell’epistolario[5]. In questo senso, il lavoro di drammaturgo è parallelo e complementare a quello di giornalista, che non a caso Oriani intraprese nel medesimo anno, sempre il 1899. In secondo luogo vi sono motivazioni più autentiche, intime, legate alla più sincera e fertile vena ispirativa dello scrittore. È presente, negli ultimi romanzi della fase maggiore, una nettissima ed immediatamente evidente tensione di tipo teatrale, segno di esigenze profonde che andavano maturando nella scrittura con il passare del tempo: Vortice, con la sua perfettamente coesa unità di azione e di tempo, risponde benissimo a uno statuto drammaturgico; e Olocausto (1902) è articolato in cinque parti o «giornate», che sono veri e propri atti di teatro. È persino possibile individuare il punto esatto di cesura fra scrittura narrativa e scrittura drammatica, il momento di transizione in cui emergono per la prima volta le nuove esigenze espressive: un testo del novembre 1898, il monologo Il marito che uccide scritto invano per Ermete Zacconi e pubblicato in seguito in Ombre di occaso[6]; che sotto l’apparenza di una pièce per la scena, sia pure per voce sola, cela ancora la struttura e gli strumenti di un brano narrativo.
   In termini stilistici, l’opera teatrale ci offre di Oriani un’immagine completamente nuova, ulteriore ed originale[7]. Per comprendere l’esatta posizione di Oriani drammaturgo occorre tuttavia rifarsi all’intera storia del teatro italiano dell’Ottocento, e al punto che la sua evoluzione aveva raggiunto alla fine del secolo. Dopo la fase del dramma storico di tipo romantico, privo di grandi esiti sul piano artistico – il frutto migliore e più tipico ne era stato l’Arnaldo da Brescia di Giovan Battista Niccolini, del 1843 – ma che aveva annoverato l’esperienza eccentrica della tragedia «poetica» manzoniana, la scena teatrale italiana aveva iniziato con forza ad avvertire, almeno dagli anni Sessanta, quella stessa esigenza di rispecchiamento del vero che aveva già prepotentemente investito la narrativa e il romanzo; esigenza che, soprattutto a partire dagli anni Ottanta, aveva trovato esito (accanto ai più impegnativi esperimenti del Verga, di Capuana, di De Roberto, e al filone sempre vivo del teatro dialettale, settentrionale e meridionale) in quello che viene convenzionalmente definito «teatro borghese», con autori quali Giuseppe Giacosa, Marco Praga, Paolo Ferrari, Achille Torelli, Roberto Bracco, e che di fatto costituisce il termine medio della produzione teatrale degli ultimi venti anni del secolo[8]. Dopo aver fatto – o meglio ancora subito – il processo di unificazione nazionale, la borghesia della Terza Italia si accingeva saggiamente a raccoglierne i frutti, in termini di accumulazione economica e di ascesa sociale; e cercava nel teatro un passatempo insieme onesto ed educativo, che la divertisse e confermasse il sistema di valori cui essa informava il proprio paziente e tenace lavoro quotidiano. Personaggi borghesi, ambientazioni borghesi; più che tutto, vicende improntate ad un ferreo ethos borghese: vale a dire innanzi tutto la stabilità della famiglia, con i suoi ruoli rigidamente definiti (marito, moglie, figli, genitori/suoceri, camerieri, e la perturbante intrusione della figura dell’amante), focolare degli affetti ma insieme garanzia dell’equilibrio sociale; e poi, intrecciata al totalitarismo dell’etica familiare, la celebrazione del lavoro, della produttività, dell’industriosità onesta e tenace, senza improvvise audacie o colpi di testa, destinata a proiettarsi solidamente attraverso le generazioni. Anche laddove questo insieme di valori venga messo in crisi – e bisogna dire che la crisi in genere non tarda mai eccessivamente a scatenarsi, per l’affacciarsi dell’illecita e pericolosissima passione, sempre in agguato per quanto vigorosamente si cerchi di sradicarla – il risolvimento della vicenda non può che portare alla riconferma del sistema, l’unico in grado di assicurare una vita non solo piacevole e festosa, ma anche moralmente soddisfacente.
   Quando Oriani mette in cantiere la sua attività di drammaturgo, come abbiamo visto, è il 1899, al termine estremo del decennio in cui il teatro borghese ha celebrato i suoi trionfi più clamorosi: Tristi amori di Giacosa è del 1887, Come le foglie del 1900, La moglie ideale di Marco Praga del 1890; e già si intravedono i due divaricanti sviluppi a cui, col secolo nuovo, approderà il teatro italiano, la drammaturgia lirica del D’Annunzio e poi la decisiva, rivoluzionaria scrittura pirandelliana. E tuttavia, l’intera produzione drammatica di Alfredo Oriani si svolge testardamente a partire dalle consuetudini stilistiche del teatro borghese. La disposizione dei personaggi, i loro rapporti, il modo stesso del loro dialogo, piano e modesto, sono improntati a un perfetto mimetismo della vita del ceto medio di fine Ottocento; «un salotto corredato con semplicità signorile», «un vestibolo chiuso nel fondo da una vetriata lungo la quale passa il viale di una piccola serra che dà sulla strada per una porticina», «gabinetto da studio, elegante», «salotto da studio, con scansia di libri, uno scrittoio con poltrona e dietro una porta laterale: tavoli a muro, un sofà, un pianoforte dirimpetto allo scrittoio, porta nel mezzo», «salotto borghese, una finestra a due porte»: queste, o di genere simile, sono le intestazioni di scena che introducono i dieci drammi di Oriani. (In un unico caso, con la pièce Gli ultimi barbari, lo scrittore si accosterà a un’ambientazione proletaria e concreta, tra le passioni violente dei carbonai dell’Appennino; e in questo caso potremo certamente parlare di influenze diverse, dal Verga di Vita dei campi sino alle dannunziane Novelle della Pescara). La cifra originale è invece data da una specifica atmosfera, per cui il teatro di Oriani immediatamente si segnala. Quelli che erano i sereni, normali, in fondo tranquillizzanti intrecci del dramma borghese, con le loro ortodosse vicende di desiderio e di interesse, assumono nelle sue tragedie un significato diverso, un tono allucinato e violento: lo scrittore vi cala in pieno il veleno della sua profonda sofferenza psicologica, articolandola nelle situazioni e nelle tematiche che gli sono care, e subito gli affetti familiari appaiono minati alla radice da odi profondi e laceranti, dal ricordo mai sopito di antichi tradimenti, da passioni innaturali ed impossibili, da una totale incredulità – di fatto – in un’umanità finalmente amorevole e appagata. Il programma interiore, l’ambizione riposta con cui Oriani aveva intrapreso la carriera di drammaturgo ci è testimoniato da un capitale passaggio di una lettera del gennaio 1904, indirizzata agli Accademici de la lira che volevano pubblicamente festeggiarlo a Bologna; protestando come di consueto per la poca simpatia con cui veniva accolto il suo lavoro, lo scrittore ricorda una rappresentazione teatrale appena avvenuta nel capoluogo emiliano, con esito disastroso; e commenta: «[...] io fui più fischiato del dramma che nemmeno lo fu, e la stampa al solito mi tratta da principiante, ricusa di riconoscere le mie intenzioni, di giudicare la mia opera, di vedere nel drammaturgo il romanziere, e dietro questo lo storico, e più in alto forse il pensatore»[9]. Il teatro doveva dunque essere il culmine, il riepilogo di tutta l’attività precedente, dai romanzi alla poesia ai volumi di racconti sino alle monumentali trattazioni di tipo storico e dottrinale: un carico decisamente eccessivo per una scrittura esilissima come quella teatrale, in cui il gusto e la misura, il senso dell’immediato rapporto col pubblico riveste un’importanza così determinante; di qui il carattere di intensità intellettuale, di cerebralismo puntualmente rilevato dalla critica, e che è valso allo scrittore una frettolosa rubricazione nella categoria degli autori più influenzati dal coevo teatro scandinavo, Butti e Bracco in testa, pure così intimamente diversi e meno problematici rispetto al faentino[10]. Anche se occorre poi dire che Oriani, che pure si muove su linee evolutive assolutamente personali e modellate su ritmi interiori, del tutto impermeabili a influenze esterne, doveva essere stato non poco affascinato dai lavori di Henrik Ibsen, se ne L’abisso decide di tributargli uno spontaneo ed esplicito omaggio; nel secondo atto del dramma assistiamo al dialogo seguente fra la protagonista Silviana e il suo pigmalione Luciani, giornalista teatrale:
 
   SILVIANA. A proposito, non è la prima dell’Anitra Selvatica stasera?
   LUCIANI (sorridendo). Ho già fatto l’articolo.
   SILVIANA. Prima!
   LUCIANI. Io sostengo Ibsen, la Tribuna lo attacca: poteva accadere diversamente.[11]
 
 
 
   E il giudizio si precisa meglio, sempre nel secondo atto, poche scene più avanti, in un passo in cui Luciani si fa quasi portavoce delle convinzioni estetiche di Oriani:
 
   LUCIANI. [...] Hanno fischiato Ibsen: il mio articolo sarà più importante.
   SILVIANA. Fischiato!
   LUCIANI. Lo applaudiranno domani. È un grande ingegno inquietante: ancora uno di quelli che cercano la verità della vita nella passione.[12]
 
 
 
   Un altro stupefacente carattere della scrittura drammatica orianiana, su cui ci accadrà di tornare a proposito di Dina, è l’ostinazione con cui lo scrittore riutilizza, nell’ideazione delle sue tragedie, le trame dei grandi classici della drammaturgia mondiale. Il più celebre caso è L’invincibile, del 1902, la cui raffinata scrittura scenica risente fortemente della suggestione insieme dell’Orestea di Eschilo, dell’André Cornélis di Bourget e dell’Amleto di Shakespeare; il riuso è tanto insistito e fedele che si può di fatto stabilire una perfetta corrispondenza fra i personaggi, Ruggero Monesi ripete il personaggio di Amleto, la Marchesa Varano sua madre la regina Gertrude, il Conte Edmondo Donati lo zio Claudio responsabile dell’assassinio del fratello, Luciana è Ofelia, il giudice Giovanni Venturi Polonio. Ma Oriani si spinge addirittura oltre: segnala apertamente al pubblico, tramite citazioni e ammiccamenti, quel che sta facendo, dando alla sua pièce una cerebralissima e soffocante dimensione metateatrale; nel primo atto così si rivolge il vecchio e comprensivo giudice Venturi al giovane Ruggero, che si arrovella fra mille dubbi sulla morte del padre avvenuta vent’anni prima:
 
   VENTURI. Perdonatemi, ma mi sembrate preso da una pericolosa passione. Siete giovane, avete un’anima da poeta e siete un grande ingegno. La tragedia di vostro padre può suggestionarvi, non si entra impunemente nel circolo incantato di Amleto.[13]
 
 
 
   Nel secondo atto è l’amico Ottavio, spedito da Ruggero ad indagare fra vecchi servitori e testimoni del tempo, a riproporre l’esplicito paragone:
 
   OTTAVIO. [...] Mio zio, col quale ne ho parlato, si è messo a ridere, egli ti chiama Amleto e non vede in tutto questo che una esagerazione fantastica, una malattia sentimentale, che ti passerà. Naturalmente non gli ho comunicato il tuo sospetto, altrimenti ti avrebbe giudicato pazzo: un po’ lo sei.[14]
 
 
 
   La vicenda di Amleto torna ancora poche scene più avanti, in un velenoso colloquio fra Ruggero, la madre e il patrigno Donati; ed infine, una quarta e ultima volta, nell’atto finale, a poche pagine dalla repentina conclusione, in uno scambio di battute fra il protagonista e il giudice Venturi:
 
   RUGGERO. Non avete finito? Avrei parlato così anch’io, se il mio caso fosse il vostro. Parole, parole, parole, come diceva Amleto!
   VENTURI (avvicinandosi affettuosamente). Voi pensate troppo al suo fantasma. La tragedie vere non sono quelle della scena. Voglio dirvi ancora questo: immaginate che Amleto non sia ferito e trionfi: ecco la tragedia: per uccidere il re ha ucciso il padre e il fratello di Ofelia morta pazza per lui: per lui è stata avvelenata la madre, ed è solo. Shakespeare ha avuto paura di un simile spettro, eppure la vera tragedia sarebbe cominciata allora! Vi credete voi più forte di Amleto, più grande di Shakespeare? La vostra tragedia si compirà da sola, lasciate agire il destino.[15]
 
 
 
   Allo stesso modo, e molto spesso con la stessa esplicita dichiarazione del proprio modo di agire, Oriani riutilizza per L’abisso la trama del dramma di Dumas figlio La dame aux camélias, per Ultimo atto quella di La femme de Claude, sempre di Dumas figlio, e per Momo il lavoro di Turgenev Pane altrui. Questa ostinata volontà di mettere a confronto la propria opera con quella dei più grandi del passato, addirittura inglobando i personaggi del mito, andrà certamente attribuita alla incommensurabile e delirante ambizione dello scrittore, che tutto voleva fagocitare nello sforzo di dimostrare la propria soverchiante grandezza.
   Quanto ancora agli effettivi caratteri del suo stile, Alfredo Oriani è comunque sempre uguale a se stesso, con tutti gli elementi distorsivi che caratterizzano anche la parte narrativa della sua opera: lo sfrenato autobiografismo, il gusto per le ambientazioni esotiche e stravaganti, la cocciuta ricerca dello scandalo, i momenti in cui si rivela completamente incapace di sintesi, il desiderio infine di esibizione erudita; il tutto però come rattenuto, in una scrittura più asciutta e più depurata, più agile: forse perché anche l’indomabile Oriani era consapevole di quanto fosse difficile il confronto con un pubblico fisicamente presente in sala, e quanto potessero essere impietose le sue reazioni. E del pari ritroviamo quello che è il grande pregio di tutta la sua opera, l’umanità profonda con cui egli tratteggia le sue vicende, la pietà per sofferenze e sacrifici, il senso quasi religioso della irriducibile dignità dei vinti, da cui nasce l’autentica e indiscutibile, resistente agli anni e ai pregiudizi, bellezza poetica del suo teatro[16]. (Per dare un’idea di che cosa sappia fare Oriani, basterebbe dare una scorsa alla pièce Momo, ambientata nella campagna intorno Perugia: il protagonista, vecchio cameriere, è in realtà il padre naturale della sua padroncina, ed è rimasto a servizio nella casa per seguirne di lontano la crescita; egli salva la ragazza da un matrimonio sbagliato, cui vuole spingerla la madre superficiale e ambiziosa, e nell’ultima scena, quando finalmente l’intreccio si è risolto, sta per tradire la sua autentica identità; ma per un soffio, con uno sforzo estremo della volontà, riesce a trattenersi per non turbare la fanciullesca serenità della figlia). Infine, nell’opera teatrale – a dimostrazione che le due parti della produzione creativa orianiana appartengono a un tutto perfettamente unitario, ad un continuum tematico che sarebbe impensabile leggere separatamente – ritroviamo i medesimi elementi di cui è costruita anche la totalità dell’opera narrativa: il motivo dei genitori, specialmente della madre, incapaci di effettivo amore nei confronti dei figli, tesi con tutte le loro forze a compromettere la loro futura felicità, per stupidità e più ancora per aridità di cuore (La logica della vita, Momo); quello della donna troppo al di sotto delle aspettative morali dell’uomo, pronta a ferirlo nel suo legittimo desiderio di essere amato, che si fa beffe di lui e sfrutta i suoi sentimenti per soddisfare i propri meschini desideri (Ultimo atto, Incredulità, ancora Momo); le grandi individualità titaniche, in rotta con la società e con le sue convenzioni in nome di un’interiore ricerca etica, pronte ad autodistruggersi pur di affermare i loro ideali (Ida ne La logica della vita, Giuliana ne La figlia di Gianni, Ruggero Monesi ne L’invincibile, Silviana ne L’abisso, la stessa Dina, come vedremo); e poi ancora l’ambizione eccessiva e sfrenata, l’eccezionalità dell’esercizio artistico, la figura della meretrice, il tema della malattia e della morte; e molti altri.
 
 
 
   Un lettore che si accosti oggi all’opera teatrale di Oriani, dopo l’iniziale delusione rispetto a quelle che potevano essere le aspettative suscitate dai romanzi, tanto più significativi, non faticherà tuttavia a comprendere la poesia della vicenda di Momo, la concisione e l’efficacia di Ultimo atto, o persino la potenza drammatica de L’invincibile, non a caso da sempre il dramma più letto e ammirato di Oriani[17]. Ma non v’è dubbio alcuno su quale sia stata l’opera teatrale che lo scrittore amò di più, in cui si riconobbe più interamente realizzato, e cui legò tutto il suo affetto e le sue speranze.
   Dina, tragedia in quattro atti, venne completata nel novembre 1905: a più di due anni da quella primavera del 1903 in cui Oriani aveva per l’ultima volta messo mano al suo teatro, componendo in tre mesi Momo, L’abisso e Gli ultimi barbari. Già nel maggio 1905, in una lettera indirizzata a Luigi Donati, egli accenna a una «fedra», che le complesse vicende agricole del Cardello gli impedivano di continuare[18]. Ma poche settimane più tardi, ecco Oriani annunciare all’amico critico Edoardo Boutet, all’epoca direttore del Teatro Argentina di Roma, il compimento del lavoro (8 novembre):
 
   È vero, ho compito la nuova tragedia, Dina.
   Non credevo che avrei scritto in questo mio orribile deserto, e invece, non so come, nel mese della vendemmia, così faticoso per me vignaiuolo, ho scritto. Dina è oggi l’antica Fedra di Euripide, come nel mio Invincibile, Ruggero è Oreste. Quante volte avrei voluto averti vicino per sentire ripercossa in te, nel tuo ingegno di critico la mia opera d’artista.
   Adesso, per la prima volta in vita mia, io il temerario, ho dei dubbi; Dina ha scene difficilissima, punti di una nobiltà tragica e scabrosa.[19]
 
 
 
   Così grande era il senso di interiore riuscita di Oriani, così cieca la sua fiducia nell’opera prediletta, che senza indugio egli si affrettò a presentarla alla più grande stella dei palcoscenici europei di quegli anni, Eleonora Duse, di passaggio a Bologna. La reazione non poteva essere più fredda (25 novembre):
 
   Le restituisco il manoscritto, e prima di partire voglio dire che col suo lavoro alla mano mi sono convinta che la prima impressione era la buona. Io non mi riconosco nessuna delle qualità, e nessuno dei difetti che mi sarebbero necessari per poter rappresentare Dina.
   Creda alla sincerità del mio rammarico. E. Duse[20]
 
 
 
   Da questo momento, riuscire a far rappresentare Dina divenne per Oriani quasi un’ossessione. Lo scambio epistolare con Boutet, serrato e angoscioso, continuò nei mesi seguenti; l’amico era animato dalle migliori intenzioni, ma nulla riusciva ad acquietare le ansie e i dubbi dello scrittore. Senza saperlo egli si era intromesso nel contrasto fra Boutet, direttore, e Ferruccio Garavaglia, primo attore, che si scontravano per il controllo della gestione; le missive si succedono alle missive, indirizzate anche all’agente romano Adolfo Re Riccardi, a Pietro Poggiali, a Garavaglia, a Evelina Paoli[21]. Finalmente, il 26 febbraio 1907 il dramma venne rappresentato al Teatro Argentina di Roma, interpreti Evelina Paoli e Vittorio Pieri, riportando però un esito modesto e contrastato[22]. Oriani, che era rimasto all’oscuro anche della rappresentazione, apprese la notizia con sgomento; immediatamente (e forse non a torto) incolpò gli attori, inadatti ai ruoli, e la poca attenzione della direzione del teatro. Il 7 marzo scrisse a Boutet una lunghissima lettera di accuse e recriminazioni:
 
   [...] scrivo a te: a Garavaglia scrissi indarno giacché non si è degnato rispondermi. Eppure mi aveva promesso di recitare nella Dina, e invece ha messo Pieri al proprio posto tragico di marito di Dina.
   E senza avvisarmi.
   È triste, ben triste!
   Speravo in te, avevo anche la tua parola: ti avevo detto, considerami come un morto, rispettami come se la mia opera avesse già la consacrazione della morte.
   Perché dunque avvenne così?[23]
 
 
 
   A questa seguirono nuove lettere a Re Riccardi, e al fedele «scolaro da caffè» Federzoni. Finalmente arriviamo alla lettera famosissima, al grido di dolore indirizzato a Mario Missiroli il 25 maggio 1907:
 
   Dina assassinata a Roma, assassinata, cred’io per sempre! Dina, la mia più profonda, più moderna tragedia: assassinata vilmente dalla Compagnia e dalla stampa! Sai cosa vuol dire ciò? Che dovrò morire a Casola, prigioniero nella mia casa di debiti che non feci, contro i quali lotto indarno da trent’anni.
   Morire a Casola! Almeno la cosa accadesse presto: invece sono anni che aspetto. Dina poteva essere la liberazione.[24]
 
 
 
   In luglio finalmente, a furia di suppliche e insistenze, Oriani riuscì a far ripresentare all’Olimpia di Bologna la sua tragedia, da Ferruccio Garavaglia e Emma Gramatica: ancora una volta la rappresentazione si risolse in un insuccesso. Il mancato trionfo dell’amatissima Dina fu per Oriani un dolore cocente, la conferma di antiche insicurezze e disillusioni; l’amarezza per la caduta dell’opera prediletta si confuse, negli ultimi anni di vita, con quella per le disavventure editoriali di La rivolta ideale e Fuochi di bivacco; tanto che per quattro anni, fino all’aprile 1909, egli abbandonò completamente la scrittura teatrale[25].
   Si è già detto che, specialmente per le opere drammatiche, l’elemento esterno che mette in movimento la virtus creativa di Oriani è dato dall’incontro con uno dei grandi classici della drammaturgia mondiale, antico o moderno. Nel caso di Dina, tuttavia, egli rischia più che in qualsiasi altro caso, confrontandosi con la grandiosa vicenda mitologica di Fedra e di Ippolito, che aveva generato una delle più solide tradizioni intertestuali della letteratura occidentale[26]. Il topos del figliastro insidiato dalla matrigna, che la respinge e viene per questo accusato di stupro, è antichissimo, e diffuso in tutte le culture del bacino del Mediterraneo: si pensi solamente, nella Bibbia, alla storia di Giuseppe e della moglie di Putifarre (Genesi, 39-41). Nel mondo classico esso aveva dato origine alla solitaria figura di Fedra, chiusa in una vicenda dalla soffocante potenza drammatica, densa di riverberi sanguigni e di cupe suggestioni psicologiche. Fedra regna in Atene, legittima sposa di Teseo, cui ha dato i figli Demofonte e Acamante. Già il suo sangue sembra segnato da un destino oscuro, contaminato all’origine da una vocazione di morte che non tarda a colpire tutti i membri della famiglia: suo padre è Minosse, re di Creta, che diventerà poi giudice infernale; sua madre è Pasifae, sulla cui memoria grava ancora lo spaventevole ricordo della innaturale passione per un toro sorto dal mare, dovuta ad una vendetta di Poseidone; suo fratello è il Minotauro, il mostro metà uomo e metà animale che il padre ha rinchiuso nel Labirinto, e che proprio Teseo ha ucciso per liberare Atene dal tributo di sangue imposto dai Cretesi. «La fille de Minos et de Pasiphaé», la definirà, con uno degli alessandrini più celebri della letteratura francese, Jean Racine, condensando in un solo verso tutto il muto terrore che poteva ispirare una simile genealogia. La tara che si annida nel suo sangue non tarda a scatenarsi: ad Atene è presente anche il figlio di primo letto di Teseo, Ippolito, nato da Antìope, regina delle Amazzoni; il quale però, fedele all’eredità materna, spregia le donne, e dedica le sue giornate solo alla guerra e alla caccia. Fedra è presa da una violenta, divorante passione per il figliastro, e ben presto finisce per confessargliela. Ippolito, atterrito, fugge. Ella decide di vendicarsi: denuncia allo sposo allibito una presunta violenza subita da parte di quest’ultimo. Teseo maledice il figlio davanti a Poseidone, che già ha promesso di adempiere a tre dei suoi voti: mentre Ippolito sta guidando un carro trainato dai suoi cavalli preferiti un toro mostruoso esce dalle acque, facendo imbizzarrire gli animali che travolgono il loro padrone. Solo a questo punto Fedra svela l’inganno e si uccide a sua volta, lasciando il marito a piangere sul cadavere del figlio che ha mandato a morte. È una delle costruzioni più affascinanti e cariche di significati del mito classico, che i grandi tragici del V secolo, nel loro generale ripensamento critico delle basi della cultura greca, non potevano che affrontare a dovere: si ha notizia di una perduta Φαίδρα di Sofocle; ed Euripide tratta questa vicenda in due differenti tragedie, l’Ippolito velato (Ίππόλυτος καλυπτόμενος), smarrita, e, dopo l’insuccesso di questa, l’Ippolito coronato (Ίππόλυτος στεφανηφόρος o στεφανίας, 428 a.C.), uno dei pochi casi di tragedia euripidea che conquistò la vittoria nei giochi. Da questa tragedia di Euripide discende direttamente, nella letteratura latina, la Phaedra di Seneca, di intenso impianto filosofico (I sec. d.C.). Ma è con il decisivo intervento di Jean Racine, quindici secoli più tardi, che la vicenda di Fedra rientra a pieno titolo nel circolo di influenza intertestuale della letteratura europea.
   La Phèdre viene composta nel 1677, al termine del grande decennio creativo in cui Racine ha raggiunto la piena maturità espressiva, e si è imposto come il maggiore tragico contemporaneo. Lo scrittore rivisita il racconto mitico, modificandolo profondamente e dotandolo di caratteri assolutamente originali. In primo luogo la trama si arricchisce di un nuovo personaggio, Aricia, la figlia di Pallante di cui Ippolito è innamorato: quasi che, sviluppando una seconda storia d’amore in corrispondenza con quella di Fedra, Racine volesse dare più equilibrio alla tragedia, nonché maggiore umanità al personaggio del principe ateniese. In secondo luogo egli pone al centro della vicenda il grande tema della passione, rispetto invece a quello del rapporto fra uomini e dei. È noto che il teatro di Racine, a differenza di quello di Corneille, è teatro lirico, di scavo e analisi psicologica più che eroico e di azione. Il personaggio di Fedra sembra tagliato in modo ideale per uno studio del «disordine della passione», dello scatenarsi dell’eros, della sensualità selvaggia e incontrollata che distrugge, giansenisticamente, lo spazio sereno della razionalità e dell’armonia. Trezene, la città del mito in cui lo scrittore trasfigura la corte di Versailles di Luigi XIV, ci appare come una terra di pura luce, in cui i protagonisti si muovono con suprema leggerezza: nulla sembra destinato a turbare la loro vita quasi sovraumana; è Fedra a portare con sé, dentro di sé, qualcosa di oscuramente distruttivo, un elemento mostruoso annidato nell’anima, che non a caso si manifesta in principio come malattia del corpo[27]. Sarà la stessa regina a definire la propria passione come furore, follia: «Sers ma fureur, Œnone, et non point ma raison», dirà alla nutrice nel terzo atto; e nel secondo si definirà addirittura «monstre affreux». La naturale vocazione alla razionalità dei personaggi di Racine è talmente determinata che, nel momento stesso in cui subisce lo strazio della passione, Fedra analizza quello che via via sta provando:
 
Le voici. Vers mon cœur tout mon sang se retire.
J’oublie, en le voyant, ce que je viens lui dire.
 
 
 
   Fatalmente, nonostante il freno della ragione, il mondo dei mostri sottostante alla città di classica armonia esploderà violentemente in piena luce, portando alla morte Fedra, Ippolito ed Enone; come si vede nel celeberrimo monologo del secondo atto, scena V, in cui, contro la propria volontà, la regina confessa al figliastro il proprio amore:
 
Oui, Prince, je languis, je brûle pour Thésée.
Je l’aime, non point tel que l’ont vu les enfers,
Volage adorateur de mille objets divers,
Qui va du Dieu des morts déshonorer la couche;
Mais fidèle, mais fier, et même un peu farouche,
Charmant, jeune, traînant tous les cœurs après soi,
Tel qu’on dépeint nos Dieux, ou tel que je vous voi.
Il avait votre port, vos yeux, votre langage
Cette noble pudeur colorait son visage
Lorsque de notre Crète il traversa les flots,
Digne sujet de vœux des filles de Minos.
Que faisiez-vous alors? Pourquoi, sans Hippolyte,
Des héros de la Grèce assembla-t-il l’élite?
Pourquoi, trop jeune encor, ne pûtes-vous alors
Entrer dans le vaisseau qui le mit sur nos bords?
Par vous aurait péri le monstre de la Crète,
Malgré tous les détours de sa vaste retraite.
Pour en développer l’embarras incertain,
Ma sœur du fil fatal eût armé votre main.
Mais non, dans ce dessein je l’aurais devancée;
L’amour m’en eût d’abord inspiré la pensée.
C’est moi, prince, c’est moi, dont l’utile secours
Vous eût du Labyrinthe enseigné les détours.
Que de soins m’eût coûtés cette tête charmante!
Un fil n’eût point assez rassuré votre amante.
Compagne du péril qu’il vous fallait chercher,
Moi-même devant vous j’aurais voulu marcher;
Et Phèdre au Labyrinthe avec vous descendue
Se serait avec vous retrouvée, ou perdue.
 
 
 
   Nel 1909, riconnettendosi a Racine e all’amplissima tradizione intertestuale da lui generata[28], anche D’Annunzio decide di elaborare la propria versione del mito, in una delle sue ultime e più ambiziose tragedie italiane. La cupa vicenda, carica di bagliori sanguigni e passioni incestuose, diventa lo sfondo della scrittura drammatica dannunziana: il poeta è alla ricerca di un fondale esotico in cui ambientare il proprio teatro totale e wagneriano, e lo trova in un classicismo di cui viene però esaltato questa volta l’aspetto barbarico, ferino, ed insieme religioso e sacrale[29]. L’ampiezza della vicenda viene quasi triplicata, come a meglio circondare lo spettatore; la stessa città di Trezene, in cui si svolgono i fatti, appare modellata sui siti archeologici di Cnosso e Festo rinvenuti negli anni precedenti, ma insieme avvolta in una funebre magnificenza, popolata di sinistre presenze sovrannaturali. Siamo lontanissimi dall’armonico classicismo giansenista di Racine: Fedra è ormai la «vertiginosa», l’«indimenticabile», che così svela il proprio amore nel lungo monologo del primo atto rivolto alla dea Afrodite, con accenti insieme sfrenati e terribili, allorché scopre che Ippolito sta per ricevere in dono una bellissima schiava tebana:
 
Dea, che vuoi tu dunque da Fedra? Dura
belva, con la tua bassa
fronte sotto il pesante oro scolpita,
predatrice famelica di me,
con la tua bocca sul tuo mento invitto
calda come la bava di quel mare
che ti gettò negli uomini,
o mille volte adultera del Cielo,
con l’azzurro letèo che ti vapora
intorno al losco fascino degli occhi,
o druda dell’Imberbe,
con la macchia del bacio
sopra il tuo collo forte come il collo
della cavalla tessala, e rempiuta
di sangue come di vino, e involuta
di carne come d’incendio, sì, onta
d’Efèsto, se mi guardi
ti guardo, se t’appressi
m’appresso, disperata di combattere. [...]
 
 
 
   E così si rivolge a Ippolito nel secondo atto, a cui con l’inganno ha strappato un bacio:
 
                             Non io
ti sono madre. Non mi sei tu figlio,
no. Mescolato di sangue non sei
con Fedra. Ma il tuo sangue è contra il mio,
nemico, vena contro vena. Ah no,
non d’amore materno t’amo. Inferma,
sono inferma di te,
sono insonne di te,
disperata di te che vivi mentre
io non vivo né muoio,
né ho tregua nel sonno,
né ho tregua nel pianto,
né ho bevanda alcuna che m’abbeveri,
né ho farmaco alcuno che mi plachi,
ma tutta me consumo in ogni lacrima,
tutta l’anima spiro in ogni anelito;
e mi rinnovo come una immortale
nel mio supplizio io sola,
io che non sono dea ma consanguinea
degli Implacabili, o tu che non m’ami,
tu pari a un nume, Ippolito!
 
 
 
   Anche D’Annunzio, ponendosi sulla scia di Racine, prende a pretesto la vicenda di Fedra per una grande analisi della passione: che appare però nel suo caso fatta di ferinità, crudeltà e odio, accecamento, di selvaggio e incontrollabile disfrenamento dei sensi, tanto da ridurre la protagonista a una belva primordiale: «Occhi tanto malvagi non ti vidi/ io mai, né bocca tanto veemente,/ se ripreso non abbia ossa e ferocia/ un di que’ velli dove t’accovacci», così la descrive Teseo, sempre nel secondo atto. Anche per D’Annunzio la passione è portatrice di una naturale carica di dissoluzione, ma non nei confronti del raciniano mondo di luce e armonia: Fedra è questa volta l’eroina di un mondo dionisiaco, ctonio, sensuale e malato, che distrugge portandone al tempo stesso a compimento l’interna vocazione autodistruttiva. Tutta la tragedia è pervasa dalla continua e ossessiva presenza del sangue: a partire dal primo atto, con il sacrificio rituale della schiava Ipponòe, fino all’accidentale ferimento alla mano di Ippolito, nel mettere il morso al cavallo donato dal Re Adrasto, ai giovinetti immolati sull’altare di Artemide mentre Elena pubescente danza intorno a loro, alla descrizione dell’assassinio di Antìope da parte di Teseo; fino alla grande scena della morte di Ippolito narrata dall’aedo, nel terzo atto:
 
                             Con un orrido
ringhio Arione là, contra la rupe
sbattendo, franse a Ippolito il ginocchio
(scendere udimmo ancóra gridi d’aquila
dalla cima: era Fedra!) e nello scrollo
il corpo nudo scosse (non udire,
volgiti, non udirmi più, Re Tèseo!)
là sopra il masso dove siedi, Tèseo.
E smosse con le froge il semivivo,
nell’ombra lo fiutò; di bava intriso
l’addentò per il ventre, gli sbranò
gli ìnguini. Poi, per quegli scogli, fumido
lontanò come un turbine sul Mare.
 
 
 
   Gabriele D’Annunzio era arrivato, rispetto ad Oriani, con quattro anni di ritardo; sembrava però essere arrivato meglio, e con più fortuna, visto il clamoroso successo che arrise alla tragedia. Oriani ne fu profondamente addolorato: sembrava, il trionfo del rivale, venire quasi a sottolineare l’inappellabile caduta della sua Dina[30]. E sì che l’operazione messa in atto con la sua rivisitazione del mito di Fedra era profondamente diversa, non solo rispetto a quanto fatto da D’Annunzio, ma anche rispetto alla totalità della stessa linea inaugurata da Racine, tre secoli prima.
   Oriani innanzi tutto cambia completamente il registro della vicenda, trasportandola dal fantastico mondo del mito in quello, assai più prosaico e riconoscibile, del teatro borghese: la scena è a Roma, nel 1880[31]. Dina, ragazza di origini modeste, ha con fatica risalito la scala sociale, dapprima conquistando il diploma di maestra, poi sposando il ricco Luigi, molto più grande di lei, che ha già un figlio e una figlia, Mario e Lisa. Con sé ha portato la vecchia Anna, la donna che l’ha accolta bambina: anche Oriani, pur reinterpretando radicalmente il mito, deve salvare la centrale figura di Enone, così importante nella tradizione precedente. Pian piano Dina si è inserita nel tessuto della società borghese di cui ormai fa parte: ha assunto il ruolo di padrona di casa, di amministratrice del patrimonio familiare, e persino di madre, giacché Lisa, la minore, la chiama «mammina». Solo Mario, il figlio maschio, conserva per lei un’inspiegabile ostilità, e, dopo un brillante esordio come pittore, che gli ha meritato un premio all’esposizione di Brera, si è impaludato in una vita di dissipazione, tra compagnie equivoche e facili amori. La vicenda prende avvio sulla scena allorché l’intera famiglia è colpita da una crisi: Mario si batte a duello con un compagno di club, per via di una mantenuta, Nelly, e viene ferito. Dina utilizza le risorse intellettuali e morali di cui dispone dapprima per evitare il duello, poi, quando Mario giace ferito e incosciente nella sua casa, in pericolo di vita, per curarlo e assisterlo. Nel suo atteggiamento si nota una virulenta avversione per Nelly, che il disprezzo per la sua condizione di mantenuta, per di più responsabile del ferimento del figliastro, non basta a giustificare. Quando Mario è ormai ristabilito, Dina trova Nelly nel suo appartamento, e nella grande scena VII del secondo atto avviene fra i due una violenta spiegazione: non solo Dina è innamorata del figliastro, ma ne è riamata; Oriani prosegue il processo di umanizzazione di Ippolito, attribuendogli non solo dei sentimenti, ma dei sentimenti per la stessa Fedra. La vicenda precipita: anche Luigi scopre l’amore che lega i due; dolorosamente, accetta di tenere in casa Dina, per salvare le apparenze e l’ingenuità di Lisa; Mario parte per l’Oriente.
   A campeggiare in tutta la tragedia è come al solito la passione, che assume le tinte di una titanica autenticità sentimentale e morale: Dina è uno dei tanti protagonisti d’eccezione dei romanzi di Oriani, disperati e prometeici, destinati a percorrere con la potenza della propria irresistibile soggettività l’intero testo, Ugo Olivieri, la Ida di No, Loris Nicolaievich Repnine. La sua passione è una forza viva e totalizzante, che brucia l’intera sua personalità; come ella stessa dichiara nel primo atto, parlando con Anna:
 
   DINA. Lisa ha l’anima piccola come un ditale, basta una goccia a riempirlo, mentre io ho sete, brucio di dentro. Ci sono momenti, nei quali mi stringo le braccia sul petto per soffocarmi.[32]
 
 
 
   Ed ancora, nel terzo atto, parlando con Lisa:
 
   LISA. [...] Io ti adoro (mentre l’altra scorre la lettera) mammina, mammina! Egli ci accompagnerà in bicicletta, facendo conto di trovarsi per caso sulla strada.
   DINA. Quale trovata! Vi amate così!
   LISA. Ma sì, ma sì (si ferma impressionata dall’aria dura del suo volto).
   DINA. Tu credi di amare quel ragazzo, non senti nemmeno come è freddo, sciocco! L’amore deforma, brucia dove passa: no, aspetta (le mette con visibile sforzo una mano sulla testa) meglio così, meglio la primavera, i fiori bagnati di rugiada che la terra spaccata dal sole e che alita dolorosamente delle proprie ferite.[33]
 
 
 
   Oriani ribalta di fatto l’impostazione della trama, come portata dalla linea Racine-D’Annunzio: la passione incarnata da Fedra non conduce alla dissoluzione, ma rappresenta invece fonte di salvezza. Dina, con il suo assolutismo morale, con la sua totale fedeltà ai propri sentimenti, squarcia il mondo di convenzioni borghesi che la avviluppa, e redime insieme se stessa e tutti i personaggi del dramma; per quanto forse artisticamente inferiore, la versione orianiana della tragedia si segnala per la totale innovatività dell’interpretazione della vicenda; di qui forse, oltre che dalla marcata identificazione fra autore e protagonista, il rabbioso attaccamento di Oriani alla sua creatura. Nel quarto atto, due anni dopo i fatti appena descritti, Dina è in campagna, ancora nella casa di Luigi; Lisa, sempre inconsapevole di tutto, sta per sposarsi; le apparenze sono state preservate, ma Dina è prostrata da una lunga malattia. Mario torna dal suo viaggio in Oriente: dopo un’ultima spiegazione col figliastro (scena VI), ella decide di uccidersi, come già aveva fatto sua madre prima di lei. Nella sua assoluta esigenza di espressione individuale, Dina, non potendo agire sulla realtà esterna, afferma se stessa togliendosi la vita; ma la distruzione è solo apparente, perché porta con sé trionfo e salute, riscatto, non solo per lei ma per tutti quanti la circondano:
 
ANNA. Escono dal giardino come sono entrati, tutto è buio. Tremi.
DINA. Portami il mio fichu nero.
ANNA. Ma non vieni a letto?
DINA (siede alla terrazza). Lasciami qui, spegni il lume. A letto non riposerei. Fa come ti dico (Anna esce, rientra con il fichu, e spegne il lume).
ANNA. La notte è serena, ma si fa freddo: chiudo la veranda (insistendo dolcemente). Vieni a letto. [...]
DINA. Torna fra un’ora: ho bisogno di star qui sola.
ANNA. Per pensare.
DINA. A nessuno, a nessuno. Sono sola, tu pure sei già lontana (si avvolge la testa nel fichu). Va, va.
ANNA. Tornerò anche prima di mezz’ora.
DINA (trae di tasca la fialetta, la guarda lungamente, poi con un gesto risoluto leva il tappo e beve). Dormire con te, madre mia, oramai mi basta! (si avvolge interamente la testa nel fichu).[34]
 
 
 
                                           Marco Debenedetti


* Testo della conferenza tenuta il 10 settembre 2005 a Casola Valsenio in occasione del XVII Incontro al Cardello, promosso dalla Fondazione «Casa di Oriani».
[1] A. Oriani, Le lettere, a cura di P. Zama, Bologna, Cappelli, 1958, p. 137.
[2] A. Cervi, Irma Gramatica, Bologna, Zanichelli, 1900; la prefazione di Oriani è alle pp. 3-11. Non si può certo dire che si risparmi, nel lodare l’attrice di cui voleva ottenere il sostegno: «[...] la giovane e celebre attrice non ha ancora una maniera e, probabilmente, non l’avrà mai. Per te, per me, nessun elogio suo migliore di questo, mentre imperversano ancora le imitazioni e le falsificazioni di un’altra attrice consacrata dalla gloria all’impero del teatro. [...] La piccola Irma, tu sai che la chiamo così, e nemmeno io so perché, non deriva da alcuna scuola, non accennò mai ad un programma, non sembra neppure riarsa dalla febbre dei trionfi scenici» (pp. 3-4); e più avanti: «[...] i suoi occhi si aprivano illuminandole il volto di un chiarore che rivelava un’altra fisionomia: dalla sua voce salivano accenti imprevedibili e per lungo tempo indimenticabili: la sua figura sottile e piatta, quasi di vergine bizantina, si mutava fingendo nell’impeto delle movenze agli occhi di tutti, quella forma e quella bellezza, della quale non sappiamo fare a meno nello spettacolo della passione. Irma è bella? No: ella stessa, forse, non vorrebbe esserlo: altre attrici lo sono, e non hanno e non avranno la potenza sua che erompe tutta dall’anima e, superando insufficienze e difetti della natura, vince spesso nel pubblico l’istintiva diffidenza contro ogni figurazione di scena, coll’irresistibile illusione di una improvvisa verità» (pp. 4-5).
[3] A. Oriani, Le lettere, cit., p. 140.
[4] R. Serra, L. Ambrosini, Abbozzo di un saggio su Alfredo Oriani, in R. Serra, Scritti, a cura di G. De Robertis e A. Grilli, vol. II, Firenze, Le Monnier, 1958², pp. 313-14,
[5] Si veda in proposito la lettera a Floriano Del Secolo dell’8 luglio 1902: «Stamane la stampa è velenosa, e falsifica anche la cronaca della serata a cominciare dal “Carlino”, nel quale pure scrivo da quasi un anno. Ma è così. La figlia di Gianni ha sollevato ovunque contro se stessa la stampa: e in questo è più efficace, dolorosamente più efficace dei libri miei, che passano sotto silenzio» (in A. Oriani, Le lettere, cit., p. 162).
[6] Id., Il marito che uccide, in Ombre di occaso, Bologna, Beltrami, 1901, pp. 227-41. Il testo è datato 5 novembre 1898.
[7] Ci sembra doveroso ricordare a questo punto il fondamentale saggio di Giovanna Bosi Maramotti, La produzione teatrale di Oriani (in «I Quaderni del Cardello», 2, 1991, pp. 7-27), che ha vigorosamente riaperto alla fine degli anni ’80 il dibattito critico su questo argomento. Il testo corrisponde a una conferenza tenuta in questa stessa Sala Luisa Pifferi il 7 ottobre 1989, in occasione del II Incontro al Cardello.
[8] A proposito del teatro borghese rimandiamo al saggio di F. Angelini Il teatro, in F. Angelini, C. A. Madrignani, Cultura, narrativa e teatro nell’età del Positivismo, Bari, Laterza, 1990², pp. 139-206; e nella Storia del teatro della Garzanti, al volume di F. Doglio Dal barocco al simbolismo, Milano, Garzanti, 1990, alle pp. 519-32. Sul teatro come espressione della borghesia dalla metà del Settecento alla crisi novecentesca si veda il saggio di R. Alonge Un nuovo genere: il dramma borghese, in Storia del teatro moderno e contemporaneo, vol. II, Il grande teatro borghese. Settecento-Ottocento, Torino, Einaudi, 2000, alle pp. 855-82. Sugli sviluppi del teatro fra i due secoli non possiamo che citare l’affascinante volume di P. Szondi, ancora vivo a cinquant’anni dalla pubblicazione, Teoria del dramma moderno. 1880-1950, Torino, Einaudi, 1962 [prima edizione tedesca Theorie des modernen Dramas, Frankfurt am Main, Suhrkamp Verlag, 1956]. Sull’organizzazione economica e le consuetudini del teatro italiano alla fine dell’Ottocento si veda infine il volume sempre di R. Alonge Teatro e spettacolo nel secondo Ottocento, Bari, Laterza, 1988.
[9] A. Oriani, Le lettere, cit., p. 214.
[10] Per la violenta dilatazione dei dialoghi, per l’incontro fra soggettività che non comunicano, per il serrato confronto fra personaggi, Oriani sembra a tratti avvicinarsi più che tutto a Strindberg, e alla sua «drammaturgia dell’io»; in questo senso egli sarebbe un episodio non del tutto minore della più generale crisi del teatro naturalistico, e dell’avvento del teatro del Novecento. Ma si veda in proposito il già citato volume di Peter Szondi, Teoria del dramma moderno. 1880-1950, particolarmente alle pp. 31-45.
[11] A. Oriani, Teatro, Opera Omnia, vol. XXI, Bologna, Cappelli, 1927, tomo II, p. 25.
[12] Ivi, tomo II, p. 33.
[13] Ivi, tomo I, p. 166.
[14] Ivi, tomo I, p. 175.
[15] Ivi, tomo I, pp. 213-14.
[16] Su questi aspetti ci permettiamo di rimandare al nostro Il sogno di un re prigioniero, in «Nuovi Argomenti», n. 27 (quinta serie), luglio-settembre 2004, pp. 284-95.
[17] L’invincibile, rappresentata per la prima volta a Genova da Ermete Zacconi il 12 novembre 1902, fu l’unica delle tragedie di Oriani pubblicata in vita dallo scrittore, su «Nuova Antologia», nel maggio 1904, anno XXXIX: gli atti I e II nel fasc. 777 del 1 maggio, alle pp. 3-26; gli atti III e IV nel numero successivo, fasc. 778 del 16 maggio, pp. 279-95. Il dramma venne poi tradotto in francese da J.W. Bienstock, e fu l’unico vero successo internazionale di Oriani drammaturgo.
[18] La missiva è contenuta in A. Oriani, Le lettere, cit., alla p. 239.
[19] Ivi, p. 245. Edoardo Boutet era un aperto sostenitore di Oriani, di cui aveva recensito in modo estremamente favorevole L’invincibile (La scena di prosa, in «Nuova Antologia», 16 ottobre 1903, a. XXXVIII, fasc. 764, pp. 650-57).
[20] Lettera contenuta in ivi, p. 248.
[21] Questo imponente epistolario (5 missive a Edoardo Boutet, 1 a Pietro Poggiali, 88 a Adolfo Re Riccardi, 18 al suo agente Nicolai e 1 a destinatario sconosciuto), già ricostruito da Piero Zama nel volume Le lettere più volte citato, è fra l’altro conservato in copia manoscritta presso la Biblioteca e Raccolta Teatrale del Burcardo (Roma), collezione autografi.
[22] Nel foglio di attualità teatrale «La scena di prosa», a. VI n. 8, 28 febbraio 1907, troviamo una recensione anonima che così si conclude: «Il pubblico ha applaudito al primo atto, con minore slancio al secondo, tra contrasti al terzo e con mormorii di disapprovazione all’ultimo. La vigorosissima “donnèe” di lavoro scenico è stata trattata con mezzi qua e là romanticamente antiquati e qualche volta interrotta e guastata da ingenue uscite, con personaggi che vengono nascosti dietro una porta per sbucare al momento opportuno ed altri non lodevoli ingredienti del teatro romantico. Inoltre, tolta la Paoli, che fu una “Dina” piena di passione e di espressione, gli attori recitarono con fiacchezza».
[23] A Oriani, Le lettere, cit., p. 283.
[24] Ivi, p. 303.
[25] Ancora il 2 giugno 1909 scriveva a Zena Ciottoni, annunciando il prossimo compimento di Sul limite: «E badate, la fischieranno come Dina, la mia opera più bella, la Fedra moderna, ben più viva di quella di Gabriele. E la fischiarono, e nessuno vuol più rappresentarla» (ivi, p. 392).
   Dina venne infine pubblicata nell’Opera Omnia della Cappelli insieme al resto del Teatro, cit., tomo II, pp. 119-200. Il manoscritto è salvo, anche se danneggiato nelle devastazioni belliche del Cardello, ed è tuttora conservato presso l’Archivio della Fondazione «Casa di Oriani», nel faldone secondo, fascicolo XII, di 35 fogli.
[26] L’evoluzione del mito di Fedra nella storia della letteratura occidentale è stata oggetto di un recente volume, Fedra. Variazioni sul mito, a cura di M. G. Ciani, Venezia, Marsilio, 2003. Per un bibliografia estremamente sommaria si veda inoltre: E. Amodio, Da Euripide a D’Annunzio. Fedra e Ippolito nella tragedia classica e nella moderna, Milano-Roma-Napoli, Soc. Ed. Dante Alighieri, 1930; C. Francis, Les métamorphoses de Phèdre dans la litterature française, Québec, Éditions du Pélican, 1967; Atti delle giornate di studio su Fedra, Torino 7-9 maggio 1984, a cura di R. Uglione, Torino, Celid, 1985; Fedra da Euripide a D’Annunzio, Atti della tavola rotonda (Gardone, 6 luglio 1988), in «Quaderni dannunziani», 5-6, 1989, pp. 7-141; N. Fusini, La luminosa. Genealogia di Fedra, Feltrinelli, Milano, 1990; P. Brunel, Dizionario dei miti letterari, Milano, Bompiani, 1995, ad vocem; D. Susanetti, Gloria e purezza. Note all’Ippolito di Euripide, Venezia, Supernova, 1997; Fedra: un mito dall’antico al moderno, in «Humanitas», a. LII, n. 3, giugno 1997, pp. 329-447; M. MacDonald, La violenza drammatica: Fedra da Euripide a Sarah Kane, in Atti del XV e XVI Congresso internazionale di studi sul dramma antico (Siracusa 1995 e 1997), a cura di C. Barone, Padova, Istituto nazionale del dramma antico, 2002, pp. 287-94.
[27] Sul sistema di negazioni simboliche che è alla base della tragedia rinviamo all’affascinante Lettura freudiana della Phèdre di Francesco Orlando, ora in Due letture freudiane: Fedra e Il Misantropo, Torino, Einaudi, 1990, pp. 3-137.
[28] È quasi impossibile anche solo lontanamente tracciare la tradizione intertestuale del mito di Fedra, come generata dal grande dramma di Racine; l’indagine dovrebbe fra l’altro anche allargarsi alla musica (da Paisiello a Britten) e alle arti figurative (si pensi solo a Rubens, a Nicolas Pussin, a de Chirico). Volendone dare une descrizione estremamente sommaria, ricorderemo almeno Swinburne, con il poemetto drammatico Phaedra del 1866; Miguel de Unamuno, Fedra, del 1910; e poi ancora Marina Cvetaeva (Fedra, 1926-27), Marguerite Yourcenar (Phèdre ou la désespoir, 1936); Ghiannis Ritsos con il poemetto Fedra, del 1974-75; Sarah Kane con il testo teatrale Phaedra’s Love, del 1996; e molti altri.
[29] Sui rapporti fra D’Annunzio e il mondo classico, mediati anche attraverso una personale interpretazione di Nietsche e di Wagner, si veda almeno: C. Diano, D’Annunzio e l’Ellade, in L’arte di Gabriele D’Annunzio, Atti del Convegno internazionale di studio, Venezia-Gardone Riviera-Pescara, 7-13 ottobre 1963, a cura di E. Mariano, Milano, Mondadori, 1968, pp. 51-67; M. Pavan, Modelli strutturali della mitologia greca nella «Fedra» di D’Annunzio, in D’Annunzio e il classicismo, «Quaderni del Vittoriale», n. 23, settembre-ottobre 1980, pp. 155-68; e M. Guglielminetti, La «Fedra» di D’Annunzio e le Fedre della tradizione classica, in Fedra da Euripide a D’Annunzio, cit., pp. 85-97.
[30] La Fedra di D’Annunzio, composta fra la fine del 1908 e l’inizio del 1909, andò in scena il 10 aprile 1909 al Teatro Lirico di Milano per la Compagnia di Mario Fumagalli, con Teresa Franchini nella parte di Fedra e lo stesso figlio di D’Annunzio nella parte di Ippolito; incontrò un grande successo, e venne in seguito messa in musica da Ildebrando Pizzetti e Arthur Honegger. Oriani prontamente proruppe in alti lai, accusando velatamente D’Annunzio di plagio e ponendosi in angosciosa competizione con il poeta. Quanto al rapporto di rivalità con D’Annunzio, si veda la lettera a Luigi Federzoni del 7 settembre 1908: «Sino a ieri ero l’avversario ignoto di Carducci: adesso la battaglia prosegue fra me e D’Annunzio e Fogazzaro: di noi tre chi è il più vero e il più forte? Chi ha reso meglio e più l’anima italiana?» (A. Oriani, Le lettere, cit., p. 361). Per quanto riguarda le reazioni di Oriani di fronte al successo della Fedra dannunziana, rimandiamo alle lettere ad Adolfo Re Riccardi del 16 gennaio 1909: «Molti giornali hanno evocato la mia Dina a proposito della Fedra di D’Annunzio: non si potrebbe? Pensaci. Possibile che nessuno voglia. La stessa Compagnia Fumagalli non potrebbe?…» (p. 379); sempre a Re Riccardi, il 3 aprile dello stesso anno: «…Volevo scriverti per Dina, che adesso la Fedra di d’Annunzio richiama al pensiero dei pochi che mi conoscono…» (p. 389).
[31] Come di consueto Oriani non solo riutilizza la trama della Phèdre, ma addirittura illustra apertamente agli spettatori quanto sta facendo. Nel primo atto, di fronte alle insistenze di Lisa che ha ricevuto per compito di scuola la traduzione del testo di Racine, Dina, ex-professoressa, improvvisa una lezione di letteratura: «Per quanto la proclamino un capolavoro, la tragedia non è bella. [...] Racine copia da Euripide scene intere, le migliori, ma nessuno dei due ha toccato davvero il fondo di quella passione. Allora fu il primo tentativo in arte di scoprire un cuore di donna, che sanguina, brucia solitario e maledetto» (Id., Teatro, cit., tomo II, p. 131).
[32] Ivi, tomo II, p. 130.
[33] Ivi, tomo II, p. 174.
[34] Ivi, tomo II, pp. 199-200.