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Memoria e Ricerca

Immagini in rete di un’esecuzione: Beit Hanina, Gerusalemme, 8 marzo 2002

di Serge Noiret
in Memoria e Ricerca n.s. 20 (2005), p. 169


Désastre
la tête a trop penché
a tant risqué sa tête
a crevé la toile des rêves

la veine craque
la peau pèle
les cris seront vains
l’éternité commence

et on y va.

Joseph Noiret: «Comment Venue», in Joseph Noiret e Francis Rollet,
A l’improviste
, Hennebont, Imprimerie de Basse Bretagne, 2000.


«In the act of communication at the very least, all is not lost; the seeds of hope and resolution inform even the darkest records of inhumanity; reparation is always possible; despair is never absolute»

About VII Photo Agency (http://www.viiphoto.com/)



1. Premessa: la rappresentazione del “corpo violato”

La rappresentazione del “corpo violato”2 non è sempre stata monopolio della fotografia e degli strumenti del comunicare che permeano la nostra attuale realtà visiva come la televisione e il cinema (in parte anche il fumetto) e che testimoniano, con realismo, la violenza e i conflitti durante il XX secolo.
Superato un immaginario infernale popolato, nel medioevo, da mostri e demoni, da dannati e peccatori, al principio del Quattrocento, Antonello da Messina e Hie­ro­nymus Bosch introdussero nella pittura europea, una visione del “Male”, della sofferenza e del dolore, che colpiscono l’uomo reale nelle sue quotidiane debolezze3.
Da allora, si sono dipinti i corpi torturati dei martiri cristiani; si sono mostrate uccisioni sadiche; si sono rappresentati il cannibalismo ed i sacrifici umani in onore delle divinità crudeli dei popoli indigeni conquistati dall’espansione spagnola e portoghese; si è assistito alla messa in scena della tortura come giustizia degli stati, nelle guerre di religione e contro le streghe colpite dall’Inquisizione e, in generale, come punizione ed espiazione. Si sono dipinti il dolore fisico, le ferite dei soldati, l’agonia e la morte di uomini e cavalli sui campi di battaglia, i corpi colpiti dalle epidemie e dalle calamità. Rubens ci ha introdotto con realismo alla lezione d’anatomia del dottor Tulp già nel 1632.
Con l’invenzione della fotografia, i corpi sofferenti e martoriati sono stati ritratti dall’obiettivo sempre più sofisticato dei foto-reporter con l’intenzione di documentare la realtà delle ferite e della morte. Tuttavia, la sequenza di fotografie che presento qui non proviene dal lavoro dei professionisti del reportage, eppure non offre una rappresentazione allegorica e, meno ancora, estetica della morte e dell’orrore. Non siamo davanti ad una finzione letteraria e non sfogliamo un fumetto di Enki Bilal influenzato dalla memoria dello scioglimento violento e traumatico della ex Yugoslavia4, ma ci confrontiamo con l’atroce e nuda realtà di un corpo martirizzato, un’esecuzione realmente avvenuta nel marzo 2002.
Pochi giorni dopo la messa a morte di Moh’d Saleh, un giovane palestinese5, le immagini più intime della sua tragica fine unitamente a commenti indirizzati, questi, ad un pubblico potenzialmente universale, furono pubblicate e diffuse in molti siti della rete6 e cominciarono a circolare nei blogs e nelle liste di discussioni di tutto il mondo7. Tracce attive di questa circolazione sono ancora presenti nel 2005, più di tre anni dopo l’accaduto8.
L’uccisione di Saleh durante “la seconda Intifada”, avvenne in un clima estremamente teso in Medio Oriente, costellato di attentati terroristici suicidi da parte dei palestinesi in territorio israeliano e di rappresaglie e di operazioni militari israeliane nei territori palestinesi. L’inizio del 2002 in Israele e Palestina, fu inoltre caratterizzato da un gran numero d’attentati suicidi contro civili israeliani che arrivarono a buon fine o vennero anticipati dalle forze di sicurezza israeliane9: il 2 marzo morirono 9 civili israeliani, il 9 marzo, il giorno dopo l’evento che descrivo, ne morirono altri 1110, il 27 marzo più di 3011. Nel campo pale­stinese, moltissimi furono i morti durante lo stesso mese di marzo dovuti sia alla repressione del terrorismo, che alle rappresaglie nei territori e alle operazioni militari degli israeliani documentate dalla photo reporter Alexandra Boulat, che ha fotografato gli ultimi conflitti del XX secolo: la Bosnia, il Kosovo, l’Iraq, l’Afghanistan e, e ovviamente, la Palestina12.
Gli eccidi nei due campi sono tuttora oggetti di indagini da parte delle organizzazioni israeliane per la pace con i palestinesi come le associazioni Gush Shalom13 e l’Israeli Information Center for Human Rights in the Occupied Territories, B’Tselem, organizzazioni che mantengono siti web che ho consultato e che trattano della pace tra Israele e la Palestina offrendo entrambi archivi cronologici delle manifestazioni di violenza effettuate dai due schieramenti. Importanti dossiers fotografici sono offerti insieme a delle testimonianze soprattutto nel sito B’Tselem14. Questi siti che integrano in parte i risultati dei lavori della nuova storiografia israeliana in merito alle guerre arabo-israelo-palestinesi15 documentano il più oggettivamente possibile tutti gli atti di violenza, ma non mi hanno fornito un materiale specifico per orientarmi meglio nel caso specifico di Saleh del 8 marzo 200216, e ho dovuto ricorrere a molti altri siti ed informazioni digitali offerte dalla rete che sono elencati come fonti, sia nelle note di questo intervento, sia nella sitografia che includo alla fine.

2. Le immagini di un’esecuzione

Le immagini che propongo qui non appaiono manipolate o trasformate nei laboratori digitali anche se alcune sono poco leggibili perché sono immagini digitali delle fotografie pubblicate nella stampa. Se di manipolazione si tratta, deriva piuttosto dalle modalità della loro pubblicazione nei siti, dalle leggende che le descrivono, dai messaggi elettronici che le diffondono ed illustrano gli “attachments”. Inoltre, la mancanza di alcune fotografie di una sequenza che ne conta di più, incide nella ricostruzione della dinamica più corretta di un evento violentissimo.
L’orrore che ognuno di questi scatti sempre comunica è in ogni caso inaccettabile ed insostenibile per l’opinione pubblica occidentale come lo erano state le immagini dei corpi straziati a terra e sanguinanti dei bosniaci a Sarajevo durante la guerra dei Balcani17, dei massacri in Ruanda, in Afghanistan, in Cecenia e ad Haiti18, nella prima metà degli anni ’90 dello scorso secolo19, mentre la rappresentazione a terra del corpo ferito, torturato, sconquassato e della morte viene quasi totalmente occultata durante la prima guerra americana in Iraq per la quale abbiamo poche immagini di corpi carbonizzati20.
Il mio “corpus” di immagini documenta la messa a morte a sangue freddo da parte della polizia di frontiera israeliana a Beit Hanina, sobborgo di Gerusalemme Est il venerdì 8 marzo 2002 verso le 16.15 (GMT) di Mahmoud Salah, un palestinese di 23 anni del villaggio di Bet Wazan che alcuni testimoni palestinesi descrivono come un membro delle brigate Al-Aqsa, (anche se una nostra ricerca nelle liste dei martiri di Al-Aqsa disponibili in rete non ce lo conferma), un fatto che viene anche ribadito in alcuni siti pro-palestinesi dopo l’accaduto21.
Il contesto di diffusione, il messaggio trasmesso insieme alle immagini, è sempre lo stesso: si vuole stigmatizzare l’azione estremamente brutale e profondamente scioccante della polizia di frontiera israeliana nei confronti di un palestinese adottando il principio molto discutibile – soprattutto per lo storico – secondo il quale “le immagini parlano da sole”.
Vi è poi il legittimo dubbio di trovarsi di fronte ad alcuni fotogrammi estratti da un intero filmato e, dunque, di essere in presenza di un montaggio “espressivo” e pilotato di alcuni fotogrammi piuttosto che della presentazione globale del filmato. L’autore è ignoto e la ripresa avviene dall’alto verso il basso e leggermente da destra verso sinistra, molto probabilmente da un appartamento che si affaccia sulla strada.
La serie d’immagini è stata tratta da un articolo in rete, sostanzialmente equilibrato nella presentazione dei vari documenti del dossier fatto di “collages” e traduzioni pubblicato su The Electronic Intifada, un portale americano che opera a Chicago22 e guarda al conflitto tra israeliani e palestinesi dal punto di vista di questi ultimi23. A loro volta, gli autori dell’articolo affermano di essersi serviti dei fotogrammi pubblicati dal giornale Al-Hayat Al-Jadeeda24 qui sotto, traducendo in inglese le leggende in arabo sotto le immagini25:
Ecco, nell’ordine proposto da The Electronic Intifada, la pubblicazione di alcuni dei fotogrammi che si possono trovare in rete sotto il titolo seguente: “Members of the [Israeli] Border Guards arrest the young man, Mahmoud”. (Dei soldati della polizia di frontiera israeliana arrestano il giovane Mohammed Saleh)

“(1) They push him to the ground and verbally interrogate another man [in the blue shirt]”. (Lo spingono a terra ed interrogano un’altra persona)
“(2) They search the area and chase residents away with their weapons.” (I soldati cacciano i residenti ed i testimoni con le armi)
“(3) They beat the young man, Mahmoud, who is prostrate on the ground.” (I soldati pestano Mahmoud e lo spingono a terra)

“(4) They remove his clothes and point their weapons at him.” (Gli tolgono i vestiti e gli puntano le armi addosso)
“(5) They empty their weapons into the head of the martyr Mahmoud.” (Svuotano le loro armi colpendo alla testa il martire Mahmoud.)

“(6) They use a robot to examine the body of the martyr Mahmoud after they killed him.” (Usano un robot per esaminare il corpo privo di vita del martire Mahmoud dopo averlo ammazzato.)

3. I limiti dello sguardo critico

Queste fotografie pubblicate nella stampa araba e poi diffuse in tutto il mondo con le didascalie in inglese che sono tradotte in molte lingue come si può ben vedere dalla sitografia selettiva riprodotta in appendice, sono l’oggetto di un’analisi critica su un sito web italiano chiamato attivissimo.net. Il sito, molto utile nel nostro caso, si propone di sfatare le mitologie che gravitano nella rete ed è mantenuto da un “giornalista e divulgatore informatico”, autore di una newsletter e di alcuni blogs molto frequentati sull’attualità della rete26. Uno dei blogs, parte proprio dal dossier di informazioni raccolte su Saleh con il titolo di “Orrore dalla Palestina”27. Attivissimo, nella sua indagine, non ha inteso pubblicare i documenti (non essendo arrivato a delle conclusioni certe sulla loro provenienza e sul loro reale significato) e rinvia con cautela alla rete, dove si possono tuttora facilmente reperire. L’inchiesta iniziò nell’aprile 2002 e venne aggiornata per l’ultima volta con i messaggi e i documenti dei lettori al quale il sito è aperto, il 2 maggio 200328.
Attivissimo, dopo la sua inchiesta, raggiunge le stesse mie conclusioni ovvero che non è possibile spiegare in modo univoco l’accaduto: «viste le contraddizioni fra i vari resoconti della vicenda, l’unica cosa chiara è che basandosi esclusivamente sulle foto mostrate nell’appello non c’è modo di determinare quello che è successo veramente […]. Posso solo invitare alla cautela nel diffondere quelle che sembrano foto scelte ad arte per presentare solo un lato di questa follia collettiva»29. Il fatto comunicativo di per sé genera un messaggio caricato di significati ed è quel messaggio che usa le fotografie non identificate con certezza. È dunque dal messaggio – il sito – che dobbiamo partire per analizzare nei suoi sviluppi e nei suoi passaggi attraverso la rete stessa l’intera sequenza di fotogrammi.
Attivissimo afferma di aver recuperato la prima sequenza pubblicata dell’evento nei siti della propaganda palestinese, usando Google. Il sito propagandistico che riproduce per la prima volta una sequenza di soli 5 fotogrammi (i fotogrammi da 1 a 5 della serie tratta più sopra dal giornale The Electronic Intifada), mostra tuttavia anche una seconda differenza rispetto a quella pubblicazione, mostrando solo un dettaglio della seconda immagine come qui sotto30:
Attivissimo offre poi una sua lettura delle immagini della quale lasciamo le parti evidenziate come nel suo sito: «le foto non mostrano segni evidenti di contraffazione. È chiaro che non sono state scattate in rapida sequenza: si capisce dalle ombre che cambiano, dal fatto che inizialmente ci sono militari in verde e poi poliziotti in blu, e dal fatto che il punto di ripresa non è sempre lo stesso. Come segnalato da un lettore […], si nota anche che il cerchione del veicolo sullo sfondo (sembrerebbe una camionetta militare) cambia colore (prima è metallico, poi è scuro) e che il veicolo cambia posizione fra la terza e la quarta foto. Il cambio di colore potrebbe essere dovuto a un cambio di veicolo oppure allo spostamento del medesimo veicolo (che ha infatti un cerchione scuro nella parte anteriore)»31.
Oltre a queste osservazioni derivate anche dai messaggi di posta elettronica mandati nel blog di Attivissimo, potrei avanzare un’ulteriore ipotesi, che ha qualche indizio a favore. Si potrà anche partire da essa per fornire ulteriore ipotesi che permetterebbero di capire con certezza l’origine reale della sequenza incriminata: le immagini mostrate potrebbero verosimilmente essere state tratte da un filmato. Questo confermerebbe anche l’idea secondo la quale si parla non di un avvenimento immediato, ma di una fase relativamente lunga tra l’arresto e poi l’esecuzione di Saleh. Infatti, soltanto alcuni momenti di questo evento vengono documentati dalle serie di fotogrammi pubblicati nella stampa – non sempre gli stessi e non sempre nello stesso ordine – e poi in parte riprodotte in rete.
Un esempio assai evidente di questa possibile provenienza è derivato dalla giustapposizione qui sotto di due fotogrammi che sembrano immagini fisse tolte da un filmato digitale, ovvero quella riprodotta dal sito The Electronic Intifada e quella originariamente pubblicata nel sito citato da Attivissimo come prima fonte delle fotografie incriminate, un sito che stigmatizzava la “brutalità dei sionisti”. Come si può ben vedere, il sito di propaganda palestinese illustra un fotogramma immediatamente precedente (foto in alto) prima di quello che riproduce The Electronic Intifada (foto in basso).
Attivissimo segnala inoltre il fatto che «nell’appello non vengono fornite né date né luoghi, ma un lettore […] mi ha segnalato un sito, Israele.net (http://www.israele.net/risposta.html), che risponde proprio a quest’appello che circola in Rete: mostra una versione diversa della stessa sequenza e la etichetta come disinformazione da parte palestinese»32.
La versione mostrata nel portale dello Stato di Israele in italiano33, un sito ufficiale israeliano che effettua anche una contro-propaganda per conto dello stato ebraico nei confronti dell’opinione italiana ed europea, vi è una foto in più, annota sempre Attivissimo, «che mostra un robot antibomba che armeggia intorno al cadavere del palestinese. La contro-propaganda israeliana afferma dunque che quello che fanno circolare i siti pro-palestinesi è falso»34.
In reazione alla circolazione di massa in rete d’immagini e commenti che stigmatizzano il comportamento delle forze di polizie israeliane, la stessa polizia, il ministero degli esteri dello stato ebraico e le ambasciate in Europa e negli Stati Uniti, pochi giorni dopo il fatto, fornirono un’ interpretazione diametralmente opposta, aggiungendo un fotogramma ai primi cinque che erano originariamente circolati nella rete. La nuova fotografia faceva in un primo tempo dubitare profondamente della prima versione ma non chiariva definitivamente l’accaduto. Israele.net spiega che il palestinese è stato effettivamente ucciso dai soldati israeliani, ma perché indossava una cintura di esplosivo il cui detonatore era sull’addome35, un fatto che viene tuttavia contestato da molti navigatori nei loro messaggi elettronici che precisano che non vi è traccia sulle fotografie di tale cintura, l’unico elemento che permetterebbe di accettare la versione israeliana dei fatti.
Un sito italiano che commenta l’attualità in maniera corrosiva, LiberiPensieri.net (non offre informazioni su sé stesso), propone invece alcune informazioni molto particolari al riguardo dell’accaduto che non hanno riscontro in nessun altro sito e nessuna altra versione che ho avuto modo di scoprire: «Le cose sono andate più o meno così: nelle foto sono mostrati alcuni fotogrammi di una sequenza che termina con quella che sembra l’uccisione a freddo di un palestinese da parte di agenti di polizia israeliani. […] Sulla base di una segnalazione dei servizi di sicurezza, alcuni agenti della polizia di frontiera israeliana fermano Mahmoud Salah, che è munito di cintura esplosiva mentre si dirige verso il centro della città, e un suo complice che lo sta portando in auto. Il terrorista aveva, attaccato al suo addome una carica esplosiva. Nella mano aveva il commando di controllo. Si è rifiutato di dare il detonatore alla polizia. Poi ha minacciato i poliziotti con farsi esplodere insieme a loro. I poliziotti chiamarono il prefetto della polizia di Gerusalemme, il generale Micky Levy, che ha deciso che l’unico modo per salvare la vita dei suoi uomini era sparando il terrorista, cosa che ha fatto Levy personalmente. Era chiaro che l’alternativa sarebbe stata la morte del terrorista INSIEME agli agenti di polizia. Il giorno successivo, sabato 9 marzo, le Brigate Al Aqsa confermavano che il “martire” Mahmoud Salah stava recandosi a compiere un attentato suicida nel quartiere Neve Yaakov di Gerusalemme»36 [grassetto come sul sito].
Apprendiamo addirittura che sarebbe stato il generale comandante della polizia di Gerusalemme Micky Levy molto impegnato negli stessi giorni, ad arrivare sul posto e a sparare. Levy era già intervenuto il giorno precedente il 7 marzo in un incidente simile come riferisce il giornale inglese «The Guardian»37. Il fatto in sé non ha nulla d’inverosimile, anzi, questo spiegherebbe la presenza di nuovi e diversi mezzi di trasporto o dello spostamento di alcuni mezzi della polizia oltre che confermare la durata del fatto: almeno mezz’ora passa tra la prima fotografia e l’esecuzione di Saleh.
Se le foto di Abu Ghraib analizzate in questo numero da Michel Lowy, hanno recitato il ruolo di testimonianza dell’orrore delle torture al di fuori della volontà di chi le aveva scattate per se stesso (come una forma di «turismo dell’orrore e della tortura»), al contrario, le fotografie tolte dal filmato che esamino qui, intendevano documentare quello che stava accadendo e – forse – testimoniare l’orribile brutalità dell’accaduto. Una domanda legittima si deve allora porre: chi riprendeva la scena lo faceva con quali intenzioni? Siamo davvero di fronte ad un fotografo dilettante che riprendeva dalla sua finestra? Il messaggio che si fa circolare insieme alle fotografie, sia le serie disponibili nei siti di propaganda palestinese che le serie d’immagini disponibili38 nei siti di contro-propaganda israeliana, sottolinea, in realtà, una sola cosa in modo identico e dalle stesse fonti: la violenza inumana ed inaccettabile dell’altro. Le foto non permettono di avvalorare altro; Attivissimo aveva tratto delle conclusioni plausibili già nel 2003.
Queste immagini sono di complessa interpretazione. Per questo non possono essere abbandonate alla rete, che consente una circolazione acritica di messaggi propagandistici diffusi in funzione dell’una o dell’altra parte. Esse c’interrogano, ci sfidano, c’impongono di fornire risposte o, meglio, ci obbligano almeno a descrivere un percorso di ricerca che metta in evidenza, nel mio caso, l’impossibilità di offrire risposte certe, letture univoche, interpretazioni ineluttabili almeno sulla produzione, l’origine e la veridicità delle fonti. Questo uso propagandistico della fotografia violenta, ci rimanda ancora alla necessaria identificazione dell’origine della fonte, alla necessità di avere delle certezze sulla provenienza. La loro produzione è si importante, ma è sicuramente molto meno decisiva in termini di messaggi significanti, dell’uso che delle foto viene fatto nella rete stessa. In realtà, che siano state scattate fotografie digitali o un filmato dell’accaduto, la comprensione di quanto stesse accadendo sotto le finestre di chi stava documentando l’evento, era sicuramente identica e funzionale alla sua intima visione del conflitto. Ovvero, si può genuinamente pensare che chi ha filmato (o chi per conto di qualcun altro) e poi concesso una riproduzione di alcuni fotogrammi (perché solo quelli? Ce ne sono altri?) agli organi di stampa e nella rete, procedeva da una lettura tutta personale dell’accaduto e capiva, intendeva, documentava esattamente quello che egli stesse pensando accadesse in quel momento o, forse, quello che gli si chiedeva di documentare. Tuttavia, anche se le foto fossero state scattate con già, all’inizio, delle intenzioni propagandistiche per l’uno o l’altro campo, la loro diffusione nei contesti di rete e nei siti ha comunque stravolto il significato pensato a tavolino.
Nel nostro caso non vi sono nemmeno grandi differenze semantiche nell’uso dei documenti anche quando si tratta di inserire nella sequenza pubblicata il fotogramma che ritrae la macchina automatica, il robot anti-mina. I siti della propaganda palestinese non hanno difficoltà a mostrarla dopo la prima pubblicazione che ometteva di riprodurla. Invece, quello che cambia totalmente è il registro semantico del messaggio, un commento formato di didascalie che, nella rete, è stato tradotto in tante lingue diverse; è il contesto della pubblicazione delle immagini stesse nella rete che muta: si passa da una propaganda all’altra, da un uso strumentale all’altro e il robot diventa per gli uni la prova del tentato attentato suicida, per l’altro una messa in scena degli israeliani per giustificare un’esecuzione sommaria. Ben diverso per la comprensione esatta dell’accaduto, sarebbe la possibilità di visionare l’intero filmato (se di filmato si trattasse) per capire la cronologia e la dinamica degli eventi. D’altronde, pure di fronte all’intero filmato integrale, non si riuscirebbe a cancellare l’uso che ne viene fatto nella rete e che travisa comunque – in funzione degli interessi dell’uno o l’altro campo – la realtà dell’accaduto.

4. Segni, contesti, propaganda, retorica: attorno alla circolazione di fotografie in rete

Molto più delle immagini, è dunque l’uso del messaggio e la circolazione delle diverse versioni dell’accaduto che costruisce il fatto significante di questo caso. La rete Internet è un veicolo potentissimo e una cassa di risonanza convincente per un pubblico potenzialmente illimitato. Molto di più delle televisioni e dei giornali a stampa, la rete è capace di mantenere a lungo l’effetto propagandistico e distorto – abbiamo trovato echi sdegnati dell’accaduto ancora durante l’estate del 200539 – del messaggio significante usando sottilmente la propaganda di parte a partire dalle stesse fonti.
Lowy parla di estrema rapidità ed irresponsabilità nel diffondere i messaggi che accompagnano le immagini di violenza nella rete e, citando André Gunthert40, ritiene che le fotografie digitali sono diventate «insignificanti» nel senso di non offrire più significati univoci per una loro lettura anche quando abbiamo accertato la loro provenienza e veridicità. La rete offre il contesto semiologico che va analizzato attorno alle fotografie. Questo contesto è fatto di messaggi inviati nelle liste di discussioni, nei blogs, nei siti stessi; tutte apparizioni diverse in rete delle stesse immagini che vanno analizzate per capire e leggere non quello che la fotografia sembra indicarci, ma come la fotografia, portatrice di moltissimi significati anche antitetici, viene in realtà usata attraverso procedimenti mediatici di rete in funzione dell’arte della persuasione: la propaganda.
Prendiamo un altro esempio assai più convincente che ci viene anch’esso fornito dalla rete sempre a proposito del conflitto tra israeliani e palestinesi. Una fotografia pubblicata anche dalle agenzie di stampa internazionali (qui l’Associated Press) e dalla stampa internazionale («New York Times» e «Boston Globe») ritrae un soldato israeliano che sembra sovrastare un palestinese a terra sanguinante, come fosse stato picchiato violentemente. L’israeliano tiene un manganello in mano (vedi pagina seguente).
La lettura della fotografia che viene fatta dalla stampa internazionale e dall’Associated Press nello specifico, denota molto pressappochismo nell’uso della fonte fotografica. Siamo di fronte ad una mancanza di credibilità dei fotoreporters e dei giornalisti che si sono serviti di quella fotografia41. La stessa immagine sembra funzionare benissimo nel quadro di una duplice propaganda per due cause opposte. Ancora una volta, non cambiando la fonte, ma soltanto il messaggio che, insieme alla fotografia, viene pubblicizzato, si ha l’impressione che solo il contesto offra un senso alla fotografia pronta a servire indifferentemente tutte le cause. Il commento del governo israeliano sull’accaduto – qui in inglese – nega la versione palestinese diametralmente diversa. «It is common knowledge that a picture says more than 1,000 words – but does it always tell the truth? Not always. This AP photograph was published on September 30 [2002] by the New York Times and the Boston Globe, purportedly to illustrate the beating of a Palestinian by an Israeli policeman. The story that the picture seems to tell is that of a brutal policeman wielding a baton, standing above the cowering, bloodied Palestinian. The truth is in fact very different. The “Palestinian” is really a Jewish student from Chicago, Tuvia Grossman, who, together with two of his friends, was pulled from a taxi by a Palestinian mob and brutally beaten and stabbed. The “brutal Israeli policeman” is in fact protecting them from the mob. It is worthwhile keeping this lesson in mind»42.
Forse, immagini e testi ci permetteranno soltanto di capire le modalità della trasmissione delle notizie e di una semiotica della comunicazione in rete. Quanto ai soli segni – i fotogrammi digitali – sarà evidente al lettore di questa nota, che un loro senso avulso dal contesto che il sito web offre, viene continuamente riformulato attraverso il processo comunicativo stesso. I contesti – siti profondamente diversi – nei quali le immagini circolano tuttora, offrono le chiavi semantiche per comprenderle ed interpretarle in modo talvolta completamente diverso.
La rete Internet permette, in questo caso come in altri, di fare circolare immagini di un’inaudita violenza non solo nei siti che popolano il web, ma anche attraverso la posta elettronica e nei blogs. L’operazione serve per colpire e mobilitare il lettore facendo leva direttamente sui suoi sentimenti. Si usa così il corpo martoriato e la sua immagine intima e personale in funzione di cause politiche pubbliche. Con le immagini legate ad eventi del passato si vuole ri-scrivere una storia condizionata dalle necessità di parte della memoria di oggi.
La circolazione d’immagini così violente non è sempre effettuata con la chiara consapevolezza dell’operazione comunicativa che si porta avanti. S’ignora e, soprattutto, non si controlla la pluralità dei sensi che il messaggio trasmesso in un contesto di rete può comunicare. Questo avviene anche quando, delle fotografie, si hanno e si danno le informazioni suscettibili di identificare chi viene fotografato, cosa viene mostrato, dove si svolse il fatto e quando accadde. Secondo lo storico dei media Peter Burke, anche queste basilari informazioni sulle fonti fotografiche non forniscono le chiavi del messaggio comunicativo che queste ci propongono una volta utilizzate da altri media. «The documents need to be placed in context. This is not always easy in the case of photographs since the identity of the sitters and the photographers is so often unknown and the photographs themselves originally – in many cases at least – part of a series have becomed detached from the project or the album in which they were originally displayed…»43.
Le fotografie che mostrano un’esecuzione per strada alla periferia di Gerusalemme, nella loro violenza, non creano molti dubbi sul fatto accaduto di per sé. Ne fanno invece nascere, e parecchi, quando le immagini sono manipolate dallo storico e devono essere vagliate alla luce di un metodo interpretativo critico, in questo caso applicato all’immagine digitale. La visualizzazione di fotografie fuori dal loro archivio – poggiate per esempio sul tavolo dello studioso o pubblicate nei siti della rete – pone i problemi rilevati da Burke perché si devono trattare fuori da ogni contesto scientificamente descritto.
«Di regola – scrivono Tomassini e Gallai –, tutti i documenti, non solo quelli grafici, hanno assoluta necessità di non essere separati dalle informazioni di contesto, e anche del semplice riferimento e accostamento ai documenti consimili, affini e vicini da un punto di vista archivistico»44. Questo scenario è solo un idealtipo, inesistente nei siti della rete se non in quelli che propongono l’archiviazione selettiva o completa di fotografie in rete da un punto di vista istituzionale con la presentazione sistematica e filologica di alcuni “corpus”. Molto spesso, come nel nostro caso, le fotografie sono invece usate, manipolate, inserite nelle pagine con buona pace delle regole archivistiche senza però incidere sul grado d’importanza che posseggono per la ricerca storica.
Esistono poi dei criteri specifici, un metodo da applicarsi ai documenti che circolano in rete e che dovrebbe agevolare il cammino dello studioso nel confrontarsi con le fonti digitali già difficili da interpretare di per sé, ma, più ancora, quando esse sono “in movimento”, non ancorate ad informazioni descrittive e quando esse creano addirittura una retorica di rete, come le nostre fotografie45. Quello che preoccupa – dovendo lavorare con fotografie digitali pubblicate in rete – non è tutto sommato il processo relativamente “classico” di attribuzioni di significati alle singole immagini, rispetto alle quali si avranno o meno dei dati che permetteranno di identificarle. Piuttosto, è il sito (o il messaggio elettronico, il blog, ecc.) come contesto della pubblicazione delle immagini digitali che complica notevolmente l’interpretazione. La diffusione in rete carica di significati multipli le immagini che vivono soltanto di e con questi contesti.
Lowy in questo fascicolo di MR individua tre problemi che le fotografie delle torture nella prigione di Abu Ghraib a Bagdad pongono allo storico: la loro produzione, diffusione e ricezione. È molto evidente che diffusione e ricezione delle fotografie sono, nella rete come nella stampa e alla televisione, le fasi significanti della produzione del “senso”. Una volta accertate sia la autenticità delle immagini che la loro provenienza, queste due fasi sono le più delicate da analizzare. Allontanate dal loro contesto di diffusione – giornali, rete, televisioni – le fotografie dell’esecuzione di Moh’d Saleh, perdono la loro importanza e rimangono confinate nella descrizione di un brutale episodio individuale simile a tanti altri in questo ed in altri conflitti.

5. L’uso strumentale delle fotografie nei contesti di rete

Cosa s’intende per “contesto di rete”? Vediamolo con un altro esempio di circolazione di fotografie violente per “propagandare” la necessità di rivedere oggi alla luce del passato, le relazioni con Tokyo da parte delle autorità cinesi. Di recente, sono circolate 5 fotografie a testimonianza della violenza nipponica a Nankino (1937-38), prima del secondo conflitto mondiale. Queste fotografie – riproduzioni digitali di fotografie in bianco e nero pubblicate nella stampa dell’epoca – sono apparse nell’aprile 2005 durante la crisi diplomatica tra Giappone e Cina a causa dell’interpretazione divergente del passato bellico e della mancata volontà delle autorità giapponesi d’ammettere i loro crimini nei confronti delle popolazioni cinesi.
L’origine e la produzione delle immagini non sono così importanti per chi intende costruire un messaggio comunicativo: le fotografie non sono nemmeno commentate. Il contesto storico nel quale sono state scattate non viene descritto. L’attribuzione di significato scaturisce dall’uso che si fa oggi in rete di quelle vecchie fotografie, da parte di chi intende fornire al lettore-navigatore un messaggio specifico, anche molto lontano nel tempo, della causa che si sostiene oggi. Alcuni fotogrammi possedevano il solo commento impresso di «Alliance for preserving the truth on Sino-Japanese War…». Si dava per scontato che le fotografie erano vere ed illustravano quei crimini giapponesi contro le donne ed i prigionieri di guerra cinesi del quale si parlava nel messaggio – e che la memoria oggi non deve dimenticare – mentre la politica del governo giapponese tende a cancellarla. Il messaggio elettronico intende sensibilizzare l’opinione mondiale oggi, colpire i sensi ed i sentimenti usando l’immagine dell’orrore e della violenza di ieri. Per arrivare agli stessi fini, provare la colpevolezza del governo del Giappone ancora oggi, non si è scelto di procedere usando di un metodo positivista per ristabilire la verità storica attraverso documenti storicamente connotati come veritieri. Non era importante fornire certezze sull’origine e la veridicità delle fotografie per chi voleva mobilitare i sentimenti attraverso fotografie, da sole, portatrici di significato. La violenza riprodotta su vecchie fotografie in bianco e nero sbiadite e non perfettamente messe a fuoco parla direttamente ai nostri istinti e scatena un’inevitabile ribellione in chi poi, si trova a visionarle in rete. Burke afferma giustamente che «the temptations of realism, more exactly of taking an image for reality, are particularly seductive in the case of photographs and portraits»46. L’effetto “realistico” è amplificato dai contesti della pubblicazione e della diffusione in rete; l’orrore di una violenza viene inequivocabilmente attribuito al nemico giapponese in quel momento preciso della guerra sino-giapponese e l’orrore è sempre vivo oggi. «Actions more then words» erano le parole significanti della retorica comunicativa che accompagnava le fotografie. Potremmo aggiungere, words more then photographs per sottolineare l’interpretazione semiotica del messaggio delle immagini che venivano collegate a siti web in cinese ed in inglese nel quale trovare più materiale e ulteriori commenti. Le fotografie distaccate dai contesti storici precisi offrono un messaggio quasi subliminale; il senso a loro attribuito deriva soltanto dal contesto di diffusione odierno di immagini per affrontare un problema contemporaneo anche se le immagini, di per sé, erano già produttrici di verità storica ed identificate con gli eventi del 1937-1938: «how could we forget history» si scriveva per accomunare la Storia vera all’immagine produttrice del senso vero della storia47.
In questo caso come, in parte, nell’esempio che si analizza qui, lo storico è in imbarazzo, nel doversi confrontare con la necessità imprescindibile – Ilsen About insegna a proposito di fotografie dell’Olocausto scattate nel 1944 in Ungheria – di elaborare una strategia per analizzare le testimonianze visive di un evento, fosse il più abominevole come la Shoah, e alla necessità di datare, di recensire e di connotare con precisione le sue fonti fotografiche. Egli eviterà così di usare le fotografie come macigni e come produttrici di verità immanenti. Si eviterà di attualizzare il passato procedendo più ad un uso della memoria che parla ai nostri sentimenti che di una storia vera da raccontare come opera di conservazione della stessa memoria, di generazione in generazione.
Diventa così di fondamentale importanza tenere presente che storia e memoria non partecipano delle stesse operazioni semantiche, che le fotografie mandate come testimonianze di un passato che grida vendetta, tentano una celebrazione collettiva della memoria dell’orrore e chiedono una compartecipazione della memoria che non fa parte del lavoro dello storico. Le fotografie delle violenze giapponesi proposte dalla rete tolgono l’evento dal contesto e lo caricano soprattutto di una valenza simbolica ed emotiva legata alla necessità strumentale di non dimenticare. In questo caso, è ovvio che il web tenta di parlare ai nostri sentimenti e procede con tecniche “propagandistiche” avulse dal metodo critico usato per fare una storia contemporanea nella quale non si dovrebbe costruire il discorso attraverso messaggi simbolici e fotografie che “parlano da sole”.

6. Critica della fonte fotografica nei contesti di rete

Adolfo Mignemi contribuisce a questo fascicolo di MR, ma aveva già scritto la storia di uno statuto euristico difficilmente conquistato dalle fotografie in Italia applicando regole critiche a molti esempi di fotografie scattate durante la seconda guerra mondiale e poi usate nel dopoguerra, per celebrare simbolicamente la memoria48. Gabriele D’Autilia ha offerto di recente una riflessione sulla “prova” che rappresenta, nella storia, il documento fotografico: «inserita nel sistema dei media – di più ancora in rete mi permetto di aggiungere – la fotografia assume tuttavia un significato diverso sia come fonte, perché deve essere letta in un nuovo e diverso contesto e in relazione ad altri messaggi, sia come agente, in quanto i media sono a loro volta, e con diverse modalità, strumento di rappresentazione e auto-rappresentazione. In essi la fotografia diventa parte di un meccanismo molto complesso e di una complicata rete di significati»49.
È esattamente quello che succede con le fotografie che analizzo qui. In rete queste foto sono veicolate e rese “pubbliche” con messaggi che vogliono rendere univoci ed appropriarci dei possibili usi semantici diversi della fotografia. Esse sono così usate per costruire un senso specifico, pilotato, costruito50. Oltre che accertarsi dove portano e quali significati rivestono i rimandi ipertestuali – i links – e verificare eventualmente la veridicità delle informazioni date sulle immagine stesse – non il messaggio interpretativo che le accompagna – si capirà il senso delle immagini solo dal loro uso nel contesto. «Nei media, scrive ancora D’Autilia, la fotografia si accompagna in genere a un testo: se non scompare mai l’ambiguità dell’immagine, la sua lettura viene indotta, guidata»51.
Le poche frasi che accompagnano le fotografie sugli eccidi dei giapponesi come icone universali, non sono, proprio per l’assenza di contesto storicizzato, di grande aiuto. Esse comunicano un generale sentimento d’orrore e di raccapriccio e potenziano così soltanto meglio l’intento propagandistico verso l’opinione pubblica mondiale che è alla base della loro circolazione nel web.
In realtà, e come constatazione generale, l’uso della rete come potenziale, gigantesco archivio di fonti fotografiche digitali o trasferite in formati digitali (una ricerca con Google immagine per intendersi e non l’uso dei siti di rete con vocazione archivistiche), non permette che raramente di fare molto di più di sottolineare, nel modo più critico possibile, alcuni problemi irrisolti che il medium stesso pone a tutt’oggi al suo “lettore”. Definire in modo critico il contesto della pubblicazione in rete è un processo metodologico possibile anche con la rete stessa, mentre stabilire la provenienza delle fotografie, attribuirle ad un fotografo, definire i soggetti ed i fatti rappresentati, mettere date e luoghi, sono tutte parte di un processo più complesso e, quasi sempre, impossibile da compiere, usando la sola rete. Il web toglie le fotografie dal loro archivio originario e dal contesto di provenienza e non offre che molto raramente queste informazioni di corredo ad una singola fotografia52. Per rinforzare ancora l’idea dell’estrema difficoltà di attribuire le informazioni filologiche di base alle fotografie di rete, ci si deve ricollegare al concetto, sviluppato più sopra, secondo il quale la fusione tra i nuovi media ridefinisce profondamente la valenza semiotica di ognuno di essi considerato singolarmente. In quel senso, la fotografia digitale in un sito, è portatrice di significati profondamente diversi di quelli che si ricavano da una presentazione in sede archivistica con criteri descrittivi scientifici.
L’immagine onnipresente nella rete53 è diventata una risorsa per la quale non possediamo in realtà adeguate grammatiche o strumenti analitici e critici specifici. Gli usi della fotografia in rete sono diversi di quelli che sono stati abbondantemente studiati per le fotografie pubblicate da altri media più tradizionali. Una semiologia dell’immagine fotografica pubblicata in rete potrebbe aiutarci a discriminare tra gli usi storicizzanti e non propagandistici delle immagini che rimandano ad un uso simbolico della memoria visuale54. L’immagine fotografica digitale pubblicata nel web va letta, innanzi tutto, in funzione dei siti nei quali è usata. I contesti ipertestuali, i siti web che le pubblicano, ci devono dire molto sulle fotografie oltre che sul loro valore come testimonianza veritiera di quello che illustrano. Il senso esatto del loro uso deriva solo da un’analisi critica del sito. Dal sito che pubblica il messaggio elettronico che le accompagna scaturisce il “senso” del messaggio legato alla fotografia55. Solo analizzando il medium stesso, la rete, potremo usare criticamente le testimonianze visive che vi si trovano in abbondanza e che lo storico non può ignorare.

7. Il medium Internet come convergenza degli altri media

Internet (nel nostro caso non soltanto il WWW, la telefonia mobile che integra il medium precedente e la capacità di stoccaggio e di scambio delle immagini, oltre che, da tempo ormai, la trasmissione dell’immagine fotografica portatrice di significati epocali soprattutto nell’ambito del foto giornalismo anche attraverso una sua sistematica diffusione nel video televisivo56, hanno, in questo senso, accelerato ulteriormente un processo di integrazione tra alcuni nuovi media del contemporaneo. Questi nuovi media sono degli «oggetti culturali ibridi, caratterizzati da una natura doppia e da più aspetti e funzioni; sono allo stesso tempo strumenti, e cioè prolungamenti di organi o attività umane, e ambienti, cioè luoghi nei quali si instaurano relazioni tra soggetti, si produce qualcosa, si trasformano prodotti e relazioni»57. Potremmo aggiungere a questa definizione di Antonino Criscione, che la rete (WWW), come nuovo medium verso il quale convergono gli altri media58, permette di effettuare delle operazioni semiologiche complesse di trasformazione e di moltiplicazione del significato. Permettono anche operazioni di snaturamento semantico attraverso il processo comunicativo di messaggi usati da nuove tipologie di softwares (liste elettroniche, blogs, messaggi su siti interattivi, ecc…) non più confinati nei limiti del medium di partenza come poteva essere la pagina HTML di base.
La fotografia in rete si permea così di significati diversi, nuovi, aggiunti nell’ipertesto comunicativo e nelle connessioni (links), nei confronti di quelle immagini fotografiche che permeano la nostra comprensione simbolica delle icone visive che trasmettono la memoria: la rete aggiunge alla diffusione dell’immagine, nuovi e complessi scenari semantici che devono ritenere l’attenzione dello storico al di là di una lettura “stretta” dell’immagine stessa.
Lo storico della fotografia André Gunthert scrive che «les reprises iconographiques réciproques de la presse écrite et des chaînes télévisées organisaient déjà la multiplication des occurrences visuelles des images de l’actualité: avec les perfectionnements récents du réseau électronique, internet est désormais un troisième acteur de cette redondance, qui contribue à son tour à la production et à la répétition des icônes»59. A parere mio, Internet diventa invece il luogo per eccellenza della convergenza comunicativa degli altri media. Gunthert, tuttavia, non si limita a proporre un di più «quantitativo» alla circolazione delle icone visive, ma suggerisce decisamente che aggiungono qualità alle immagini di rete e propone un ripensamento della semiotica dell’immagine nei contesti di rete.
Lowy relativamente alle fotografie di Abu Ghraib sottolinea il fatto che le televisioni, la stampa ed i siti della rete, fanno circolare questi documenti con delle didascalie univoche. Non soltanto raccontano l‘orrore delle torture: le fotografie sono vere torture in quel caso. Esse sono «l’occhio che uccide» per usare il titolo di un saggio di Giovanni Fiorentino ripreso dal celebre film “voyeuristico” del 1960 di Michael Powell, Peeping Tom60.
Nel caso delle fotografie dell’esecuzione di Saleh, il processo è identico. Le foto dell’esecuzione di Saleh producono almeno un’interpretazione univoca accompagnate come sono da descrizioni e messaggi scritti: viviamo direttamente l’orrore, la violenza estrema, la morte.
Non potendo evitare il sentimento condiviso da tutti i navigatori della rete – indipendentemente dalle loro opinioni politiche sul conflitto in atto – di una comunicazione, attraverso le immagini, di una violenza inaudita, estrema, le autorità israeliane hanno così cercato di reagire alla propaganda palestinese (non di sola persuasione si tratta nel nostro caso, ma di vera e propria propaganda)61. Le autorità israeliane non hanno lavorato sull’identificazione precisa ed attendibile delle fonti che non sono questionate o precisate (anche se è difficile immaginare che non sappiano esattamente chi ha scattato le immagini e da dove). Esse ricorrono invece ad un uso del medium identico a quello impiegato da chi aveva per primo fatto circolare le fotografie in funzione della propaganda palestinese. Così facendo, non hanno proposto un uso semantico diverso delle stesse immagini già pubblicate e trasmesse in rete, hanno aggiunto dei commenti diversi e, cosa più importante, alcuni fotogrammi mancanti per correggere il messaggio di rete. Hanno così mantenuto lo stesso piano comunicativo basato sulla visione della violenza che sboccia nell’orrore della morte. Alla pari dell’uso comunicativo di origine palestinese, l’immagine violenta colpisce tutti e parla ai sensi di ognuno e “giustifica” il ricorso alla violenza in quello ed in altri casi. Gli israeliani suggeriscono come contro-propaganda per giustificare la violenza del loro atto, quant’altra violenza e morte si era potuto evitare accettando invece quella che ci viene rappresentata. Come la versione palestinese, la visione israe­liana dell’accaduto mobilita i sentimenti di rifiuto e di ribellione contro la visione della violenza allo stato puro. L’esecuzione da parte della polizia di frontiera di un terrorista di Al-Aqsa, diventa così prevenzione, taglio chirurgico che permette di evitare ben più dolorose violenze e morti. Mostrarla in rete più che immaginare, permette quasi di “vedere” quello che si è potuto evitare e che tutti gli organi di stampa mostrano quotidianamente dall’inizio della seconda Intifada: carni lacerate, corpi distrutti, sangue versato in terra dopo ogni attentato suicidio palestinese e dopo ogni azione di guerra israeliana nei territori.
Per entrambi i soggetti del conflitto si tratta di accettare e di volere rendere pubblica l’immagine dell’orrore e della morte. Siamo di fronte ad una responsabilità, anche morale, di non censurare nulla per trasmettere quanta più violenza ed orrore possibile. Scrive lo storico dell’arte britannico John Taylor, che esiste di fatto una responsabilità morale «to publish and to see photographs of violence and the moral sleep and historical amnesia […] can exist when such imagery goes unseen or unreproduced. The abscence of journalists, reports and photographs of an event hints at structured indifference and the washing of hands […] and it matters morally and ethically whether or not we regard the depicted horrors as fact or fantasy», scrive Taylor a proposito della rappresentazione del “body horror” con l’immagine fotografica62. È su questo piano del coinvolgimento del lettore-navigatore attraverso la visione in atto – perché ricreata dalla sequenza dei fotogrammi dell’orrore patita dal corpo di Saleh – che si devono leggere i messaggi comunicativi – anche opposti – che sottendono una visione retorica di queste fotografie.

8. I diversi livelli di interpretazioni delle immagini

Le forme della violenza visiva sono diffuse indipendente del messaggio che viene loro attaccato per “descrivere le immagini”. Saleh poteva essere un membro di un’organizzazione palestinese che progettava attentati a Gerusalemme; egli portava forse una bomba attorno alla vita visto che esiste chi afferma che la cintura esplosiva viene aggiunta “dopo” l’accaduto. Sono stati tanti gli attentati in quei giorni del marzo 2002 in Israele ed era plausibile che un terrorista avesse intenzione di fare saltare in aria una bomba; la polizia poteva essere stata obbligata a sparare per impedire l’esplosione o, invece, si poteva trattare soltanto del camuffamento – dietro all’idea del terrorista incubo delle popolazioni israeliane in quelle settimane – di una sbavatura e di una violenza gratuita della polizia israeliana. Si poteva anche pensare alla costruzione a tavolino, da parte delle autorità israeliane, di un filmato choc, per colpire l’opinione sull’estrema brutalità degli attentati suicidi che si moltiplicavano quotidianamente in quei giorni.
Per chi non freme dalla voglia di vendicare e non caldeggia la legge del taglione, ovvero le opinioni pubbliche non direttamente coinvolte nella guerra medio orientale, la violenza mostrata e trasmessa è comunque inusuale, inaccettabile anche senza sapere esattamente di cosa si tratta. È insostenibile per i nostri occhi e la nostra cultura visiva e non testimonia la causa giusta o meno di uno o l’altro campo, ma piuttosto la quotidiana, assurda, inarrestabile violenza tra due popoli in guerra. Invece per i sostenitori dell’una o dell’altra causa la violenza mostrata poteva suscitare l’effetto propagandistico di accettarla per giustificarla in funzione delle ragioni di un campo. Questi diversi registri dello sguardo sono tuttavia un altro elemento significante della propaganda violenta attraverso la rete: non tutte le opinioni pubbliche, non tutti i navigatori della rete accetteranno e/o reagiranno nello stesso modo, e lo faranno in modo diverso perché interpreteranno la violenza mostrata in modo diverso.
La violenza dei documenti fotografici come questi e in particolare delle immagini che diffondono la messa a morte di un uomo, fosse o meno il terrorista di Al Aqsa imbottito di esplosivo, è totale, innegabile. Non si riesce a smussarla né con un’analisi dei livelli della propaganda che usano le fotografie o parte di esse nel processo comunicativo della rete, né con la più limitata ricerca di una connotazione più sicura dell’origine della fonte e della sua produzione.
È ancora Lowy che parla qui di una triplice violenza trasmessa dalle fotografie delle torture ad Abu Ghraib: l’effettiva tortura documentata ad personam dai carnefici, l’addizionale violenza dovuta al fatto di scattare delle fotografie e, infine, la violenza fatta a chiunque guardasse le fotografie della violenza. Le fotografie sono così la continuazione dell’esecuzione, delle torture, delle lacerazioni dei corpi attraverso la loro riproduzione e comunicazione in rete. Le rappresentazioni della violenza non sono soltanto una loro testimonianza, ma diventano esse stesse violenza. E questo processo è così veritiero che spinge anche alcuni autori di siti come Paolo Attivissimo, coscientemente, a non riprodurre le immagini incriminate, limitandosi a tradurre le “frasi della violenza” che le accompagnano.
Questi sguardi moltiplicati sulla violenza corrispondono a quelli dei tanti lettori e pubblici diversi, sempre più vasti ed allargati che ricreano la violenza nell’atto di guardare. La stessa moltiplicazione delle prospettive dello sguardo era stata ben documentata in un saggio di Luca Toschi pubblicato anni fa sulla nostra rivista. Toschi inseriva una sequenza fotografica molto particolare ed unica, quasi un filmato, una serie di tre fotografie che rimandava allo sguardo decuplicato e sempre più ampio dei diversi contesti offerti per una pubblicazione nella stampa, di una fotografia del Duce di profilo e con cannocchiale scattata nel 1934. La stessa fotografia era poi visionata dal Duce stesso che la teneva in mano e si “guardava” mentre veniva fotografato. Infine la fotografia del Duce che si guarda in fotografia mentre è fotografato dava luogo ad un’altra fotografia che rappresentava la seconda ingigantita ed esposta sulla facciata di un palazzo in Piazza della Signoria a Firenze. La terza fotografia era così fatta da una fotografia – quella del Duce che viene ritratto mentre ammira se stesso in fotografia – ingigantita come testimonianza del culto personale, nella fotografia che ritraeva ai piedi del manifesto ingigantito, una piazza gremita dei suoi sostenitori.
Ci sono tre livelli di comunicazione e di interpretazione di questa fotografia, tre possibili sguardi che creano prospettive semantiche diverse: quella originaria che riprende il Duce con il suo cannocchiale, quella del Duce che si guarda in fotografia ed infine, quella di piazza della Signoria a Firenze nel 1934 con, sul palazzo delle Assicurazioni che fronteggia l’antico palazzo del Governo, ed estesa sulla sua facciata, una gigantografia della fotografia del Duce con il cannocchiale; siamo di fronte a tre dimensioni diverse dell’uso di una stessa fotografia, a tre messaggi diversi dall’intimo al pubblico e all’universale, che vengono così diversamente veicolati e su diverse scale visive tutte accomunate da una sola fotografia, una sola icona visiva come quella dell’esecuzione di Mahmoud Saleh63.

9. Sitografia

Presento qui una lista di siti politici, informativi, critici, di liste di discussioni, di siti ufficiali palestinesi ed israeliani, e di altri siti che documentano la versione del terrorismo di stato israeliano contro il popolo palestinese da un punto di vista più meno radicale e propagandistico e quei siti che, al contrario, tentano di smontare la propaganda o di fare opera critica nei confronti delle fotografie o di fare una contro-propaganda israeliana contro il terrorismo palestinese. Il dossier completo si trova sul sito web della rivista «Memoria e Ricerca» (http://www.fondazionecasadioriani.it/modules.php?name=MR).
La ricerca per la parola chiave “Moh’d Saleh” è stata fatta in Google il 31 ottobre 2005, ed offriva circa 1.100 risposte delle quali ho scelto le seguenti ed in Google Blog Search, l’11 novembre 2005:

1. 12 Marzo 2002. “Controversy over ‘execution’ pictures”, in BBC News, 12 March 200201:02 GMT (link). L’articolo della BBC viene ripeso da molti siti uno dei quali molto utile per documentare con la rete l’intero conflitto israelo-palestinese a cura di Robin C.Miller (a “progressive free lance writer”): Writing and Resources: Research Guide to the Palestinian-Israeli Conflict – Part 2 – VI. Israel’s Occupation of the West Bank and Gaza Strip; Palestinian Life under the Occupation”, in (link)
2. 14 aprile 2002 “Re: murder [Graham, Holzer, Jwadmin, Robinson]” nella lista di discussione “nettime’s”, il 14 aprile 2002 (link).
3. “IMAGES OF AN EXECUTION: The killing of Mohammed Salah by Israeli police on 8 March 2002”, in Colorado Campaign for Middle East Peace (link).
4. 12 marzo 2002. “Jerusalem, 12 March 2002. Israel Police statement on March 8, 2002 incident,(Communicated by the Israel Police National Foreign Press Spokesman), in Israel Ministry of Foreign affairs (link).
5. “Israeli Justice?”, in Urban legend reference page, Snoopes.com (link).
6. “Controversy over ‘execution’ pictures, Submitted By: RJ”, in (link).
7. 12 aprile 2002. “Murder, file received as word attachment by email 12/04/02”, non più in rete questa versione in turco alla quale molti si riferiscono poi per diffondere il testo, delle leggende sotto le 5 immagini si trova su archivi.org all’URI: (link)
8. 3 luglio 2005. “Lettre De Louis Kolli le 3 juillet 2005 aux Elus Medbridge”, in VMP, Vigie Média Palestine (link).
9. “Israëlische fascistoïde acties op het Palestijnse volk. Israëlische militairen arresteren de 23-jarige Palestijn Moh´d Saleh. Tot dusver lijkt er niets aan de hand op de foto!!”, in Indymedia, Vrij Media Centrum Nederland (link).
10. “Un esempio dell’orrore quotidiano che vivono i Palestinesi”, in Rete No Global (hlink).
11. 10 marzo 2003. “The Story Behind Pictures From Palestine –Die Geschichte von Bildern aus Palästina”, in Radio Bridge Overseas (link).
12. 13 marzo 2002. “Esecuzione di un terrorista” in “NOTIZIARIO “COLTIVIAMO LA PACE” – MERCOLEDÌ, 13 MARZO 2002, “GROWING PEACE TOGETHER” NEWS – WEDNESDAY, MARCH 13TH, 2002, del sito “GROWING PEACE TOGETHER” CULTURAL ASSOCIATION, URL non più attivo che si trova ora nell’archive.org (link).
13. Aprile 2002. “Now this is not Kosher…”, messaggio mandato da Martin Lelscher (link) al forum del sito di famiglia Fugly, (http://www.fugly.com/), che riproduce esattamente la sequenza dei 5 fotogrammi senza nessun cambio (link)
14. 19 aprile 2002. LA VERDAD EN YENIN AL DESNUDO“ nel sito dell’AGRUPACIÓN DE PROFESIONALES Y TÉCNICOS del Partido Comunista de Madrid (link).
15. “Uccisione: Brutalità israeliana e terrorismo mediatico, in LiberiPensieri.net (link).
16. “Martyrs list in Al-Aqsa Intifada 29.09.2000, Through the year 2002”, in State Of Human Rights In Palesatine, Non-profit Organization Registered in the United States (EIN 83-0397275, lista disponibile all’URL (link) che, tuttavia, non menziona il caso di Moh’d Saleh!
17. “Boycotts We Support” in NSI – TRUE DEMOCRACY, the Home of The Journal of History, Summer 2002,pubblicato da Arlene Johnson, Postboks 458, 4002 Stavanger, Norvegia (link).
18. Aprile 2002. “Letters to the editors: see what the Palestinians have to put up with”, in The panama News, Vol.8, n.5, 13-26 Aprile 2002 (link).
19. “First they arrest Moh’d Saleh, a Plastinian aged 23. So far nothing is wrong with the picture!!”,in Human Rights Action (link), che riprende tale quale la serie dei 5 fotogrammi e il loro commento in inglese.
20. “O Terrorze w Sieci –Democratic MURDER”, in America’s new war againts terror- AOL.PL. (link).
21. 12 aprile 2002. “The true story of the death of Moh’d Saleh, a Palestinian aged 23, 12 April 2002”, in Félagið Ísland-Palestína (link).
22. 2002. “Picture speaks itself” in Russia. com Discussion Forum > International Human Rights, messaggio inviato da “denizci”, archiviato in archive.org
(link).
23. “Facciamole girare”, in ELETTROSMOG, Inquinamento Elettromagnetico (Informazioni) in collaborazione con i comitati spontanei di cittadini attivi su tutto il territorio nazionale (link).
24. Aprile 2002. “Israel assina a sangue frio na Palestina”, in CMI Brasil, Centro de Mídia Independente (link).
25. 18 luglio 2005. “Ανθρώπινες ζωές σε εικόνες… «Οι Παλαιστίνιοι πρέπει να το πάρουν απόφαση, να το βάλουν βαθιά μέσα στη συνείδησή τους ότι είναι ένας ηττημένος λαός». Αντιστράτηγος Μοσέ Γιαλόμ (Moshe Ya’alom), Ισραηλινός Στρατός.”, (link).
26. Il 20 febbraio 2004 è rimandato in un blog in lingua spagnola con il titolo “Asesinato en Palestina” (link).
27. 31 marzo 2005. “Kienes son los terroristas??”, 31 marzo 2005 (link).


1. Tutti i siti web erano attivi alla data dell’11 novembre 2005 o sono stati citati nella versione ancora conservata nell’Internet Archive, URL: (http://www.archive.org/).
2. I. Checcoli, Il corpo e le sue immagini, in «Archivio Prima Pagina», n. 3,nov. 2003-ott. 2004, in Dipartimento di Italianistica, Università degli Studi di Bologna: Griseldaonline (link).
3. Il Male. Esercizi di pittura crudele, a cura di V. Sgarbi, Torino, Skira editore, 2005. Sull’estetica dell’orrore tra pittura e fotografia rimando a G. Fiorentino, L’occhio che uccide. La fotografia e la guerra, immaginario, torture, orrori, Roma, Meltemi editore, 2004, pp. 55-60.
4. E. Bilal, Le sommeil du monstre, Paris, Les Humanoïdes Associés, 1998, p. 14.
5. Saleh viene anche chiamato Mohammed Salah o Mahmoud Salah a seconda della fonte.
6. Rimando qui alla sitografia che conclude questa nota.
7. L’israeliano B. Kimmerling (http://pluto.huji.ac.il/~mskimmer/), del dipartimento di sociologia ed antropologia dell’Università ebraica di Gerusalemme rinviava (“forward”) le immagini dell’esecuzione nella lista [EUROPEAN-SOCIOLOGIST@JISCMAIL.AC.UK" target="_blank">EUROPEAN-SOCIOLOGIST@JISCMAIL.AC.UK], il 19 dicembre 2002, con il soggetto, ripreso al messaggio rinviato alla lista di “ACT OF ARROGANCE & BRUTALITY”. Le fotografie erano solo 5 (mancava la sesta) ed in inglese. Oltre i commenti che si ritrovano in altre pubblicazioni, vi era scritto «the picture speaks for itself». Kimmerling, ignaro dell’assenza di un sesto fotogramma e volendo spiegare che il mondo accademico non dovesse boicottare le università israeliane per aiutare chi, come lui, la pensava diversamente dal suo governo, scriveva nel corpo del suo messaggio «Yes, it is an act of brutality and arrogance and much more of that. Many Israelis are fighting to change this reality and we need the support and the help of the international community, but not by boycotting the Israeli academe. We have enough troubles with our own government, who tries to “domesticate” us». Lettera alla quale risposi all’attenzione di tutta la lista il 6 gennaio 2003 con il soggetto: “Moh’d Saleh: ACT OF ARROGANCE & BRUTALITY” e con, nel corpo del messaggio, la seguente riflessione «these terrible documents and the story and facts they suggest is reaching my email from more then a year now […]. Please have a look at web sites which are dealing with this San Antonio chain and use some more “scientific approach” towards these pictures/documents. If you tape for instance the name “moh’d saleh” in google, you will be surprised by the amount of answers you’ll find there! Eventually you will then balance your jugement on those terrible violent images that are spreading world wide from Palestine and Israel. In order to be able to judge better these pictures have a look at the Israeli – in Italian- web site: http://www.israele.net/risposta.html and the Italian one http://www.attivissimo.net/antibufala/orrore_palestina.htm which are trying to understand how internet is used for spreading a specific political message – or propaganda – in this specific case».
8. Il sociologo spagnolo C. M. Abella [carlosabella@ya.com" target="_blank">carlosabella@ya.com] li manda nella lista di discussione [EUROPEAN-SOCIOLOGIST@JISCMAIL.AC.UK" target="_blank">EUROPEAN-SOCIOLOGIST@JISCMAIL.AC.UK] con soggetto “Completing Indifference legitimates crime: Israeli version”, il 5 febbraio 2004, “sequenza fotografica completa” che rinvia ad una pagina di giornale in spagnolo (ambasciata israeliana in Spagna?) che indica precisamente il fotogramma che manca nella “propaganda palestinese”. Abella aggiunge il seguente messaggio «Before sending my message, I have asked Israeli Embassy for the pics. They answered me telling the man in the pavement was a real terrorist who has explosives. The sequence had been manipulated by Palestinian propaganda. So here is the full version by Israeli Gov. Anyway, I must say that i do not know why a man immobilized and handcuffed in the floor should be shot. Maybe because they think the best terrorist is the dead one? Immediate death penalty, no trials needed? Carlos M. Abella, Sociologist». Ancora nel 2005, diverse pubblicazioni della stessa sequenza di fotogrammi – in modo acritico, come se nulla fosse stato detto e scritto in merito dall’accaduto – sono avvenute nei blogs come si può rintracciare usando Google Blog Search (http://blogsearch.google.com/).
9. Ha’aretz Staff and Agencies: “9 dead, 51 hurt in Jerusalem bombing”, in Haaretz.com (link). Sul significato degli attentati suicidi si veda Farhad Khosrokhavar, Suicide bombers: Allah’s new martyrs, London, Pluto Press, 2005.
10. Suicide bombing at Cafe Moment in Jerusalem, 9-Mar-2002, in Israel Ministry of Foreign Affairs,(link); «Eleven killed, dozens injured in suicide bombing in Jerusalem», by Haim Shadmi, Jonathan Lis and Anshel Pfeffer, Ha’aretz Correspondents and Ha’aretz Service», in Haaretz.com, (link).
11. «Passover suicide bombing at Park Hotel in Netanya, March 27, 2002», in Israel Ministry of Foreign Affairs, (link); «Bomber evaded police cordon and guard», by Amit Ben-Aroya, Haim Shadmi and Mazal Mualem», in Haaretz.com, (link).
12. Si vedano le fotografie scattate nei territori palestinesi nel 2002 oltre che da Alexandra Boulat (link), dal gruppo di fotografi appartenenti al VII Photo Agency, URL: (http://www.viiphoto.com/), e in particolare la fotografia di Boulat proposta all’inizio di questa nota, che mostra un palestinese che guarda i corpi rivestiti di lenzuoli bianchi e distesi per terra dopo un raid israeliano nel campo di Jenin: «The Second Intifada, Palestinians prepare to bury 30 countrymen killed by the Israeli Army in the Jenin refugee camp. April 19, 2002. Israel launched controversial, large-scale military operations across the Palestinian territories, killing militants and civilians, following a spate of deadly Palestinian suicide bombings in Israel». (Image ID: 66373, Source filename: ab00140166.jpg, Photo by: Alexandra Boulat / VII, April 19, 2002, Jenin, Palestine (link)).
13. Anche cercando nei motori di ricerca interni del sito del movimento pacifista israeliano diretto da Uri Avnery, ho potuto riscontrare 8 citazioni del nome del palestinese Moh’d Saleh senza tuttavia poter accedere alle pagine stesse (sembra per motivi tecnici). Il sito si trova all’URL: (http://zope.gush-shalom.org/home/en). Devo ringraziare qui Gerben Zaagsma del dipartimento di storia dell’IUE, per avermi indicato queste possibili fonti interpretative per le fotografie che ho analizzato qui.
14. Photo archive (link).
15. S. V. Di Palma, La storiografia israeliana, in «Storia e Futuro», n. 7, luglio 2005
(link), pp. 10-11 della versione accessibile in formato PDF (link).
16. Nel luglio 2005, ho inviato un messaggio elettronico a [info@gush-shalom.org" target="_blank">info@gush-shalom.org] e a [mail@btselem.org" target="_blank">mail@btselem.org] per chiedere notizie dell’accaduto. Le risposte alle mie domande su Moh’d Saleh, non hanno saputo indirizzarmi o aiutarmi a chiarire l’accaduto.
17. Fotografia di L. Delahaye, Biljana Yrhovac: blessée par un éclat d’obus, Sarajevo, 1992, in Magnum, Paris, Phaidon Press Unlimited, 2000, p. 188.
18. Fotografia di Alex Webb, Haiti, massacre, Pot-au-Prince, 1994, in Ibid., p. 432.
19. J. Taylor, Body horror, cit., pp. 129-156, specialmente le fotografie riprodotte p. 137, p. 146, p. 150.
20. Taylor riproduce la fotografia di Kenneth Jareque riprodotta dal quotidiano inglese The Observer, il 3 marzo 1991 del carrista iracheno bruciato vivo, in Ibid., p. 167.
21. «Martyrs list in Al-Aqsa Intifada 29.09.2000, Through the year 2002», in State Of Human Rights In Paleatine, Non-profit Organization Registered in the United States (EIN 83-0397275, lista disponibile all’URI: (http://www.phrmg.org/aqsa/may2002.htm). E anche «Names of Al Aqsa Martyrs March 2002», in Palestinian National Information Center (link) che, tuttavia, non menzionano Moh’d Saleh.
22. La ricerca sul dominio del sito electronicintifada.net chiarisce che il detentore del sito ed il suo contatto amministrativo si chiama Ali Abunimah, accessibile a [domains@electronicintifada.net" target="_blank">domains@electronicintifada.net], 1507 E. 53rd St. #500, Chicago, IL 60615, US, telefono: 7734932050. Informazioni tratte da Whois.Net (http://www.whois.net/).
23. Images of an execution. The killing of Mohammed Salah by Israeli police on 8 March 2002, a cura di Nigel Parry, Ali Abunimah, pubblicate nel sito web “The Electronic Intifada” (link). Il sito si caratterizza in questo modo: «The Electronic Intifada (EI),[…] publishes news, commentary, analysis, and reference materials about the Israeli-Palestinian Conflict from a Palestinian perspective. EI is the leading Palestinian portal for information about the Israeli-Palestinian conflict and its depiction in the media». Il sito possiede una diffusione importante ed è “linkato” alla data del 3 novembre 2005 a più di 6.000 altri siti come rivela Google: “Results 1 – 10 of about 6,380 linking to http://electronicintifada.net/new.shtml ";.
24. La versione ondine si trova all’URL (http://www.alhayat-j.com/).
25. Immagini pubblicate su “The Electronic Intifada”, cit. (link).
26. “Attivissimo.blog/”, URL (http://attivissimo.blogspot.com/).
27. Paolo Attivissimo: «Foto agghiaccianti di un palestinese ucciso a sangue freddo da soldati israeliani (AUTENTICHE ma incomplete). Un terribile esempio di come la “prova fotografica” non è affatto una prova» (link). Attivissimo scrive che: «Circola da tempo un appello che mostra foto agghiaccianti dell’uccisione di un palestinese ad opera di forze israeliane. […] Grazie a un lettore (m.jacob), ho dei dettagli in più sui fatti terribili raccontati nelle immagini (che sul mio sito ho scelto di non pubblicare, ma che trovate facilmente in Rete). Secondo la BBC del 12 marzo 2002, link, gli eventi descritti dall’appello si sono svolti a Gerusalemme Est, e le foto fanno parte di una sequenza più ampia, costituita da “undici foto scattate da un fotoamatore dalla propria finestra” e sono state pubblicate dall’agenzia AFP. Secondo un articolo del sito The Electronic Intifada (link) dello stesso giorno (12 marzo 2002), la persona uccisa è Mahmoud Salah, un militante dei Martiri di Al-Aqsa a detta dei testimoni palestinesi, e i suoi uccisori sono membri della polizia di frontiera israeliana. Le foto sono state scattate l’8 marzo 2002 a Beit Hanina, Gerusalemme, e pubblicate il 12 dal giornale Al-Hayat Al-Jadeeda, diffuse da Agence France Press. Il sito The Electronic Intifada è difficilmente considerabile “super partes”, ma è comunque lodevole perché mostra le foto scansionate dal giornale e ne presenta la serie completa, insieme ad articoli e dichiarazioni della stampa palestinese e della polizia israeliana (in inglese)…», citato dall’URL (link). Il sito di Attivissimo si trova su un server inglese a York, UK all’indirizzo, Top One UK Ltd, 250 Stockton Lane, YO311JQ, York, United Kingdom, +44.7050055980, fax: +44.7050055981, e-mail: pattivis@tin.it" target="_blank">pattivis@tin.it. Le informazioni provengono dal sito che identifica le registrazioni di domini web all’URL: (http://www.whois.net/).
28. Al 31 ottobre 2005, alle 12 e 45 minuti, (l’inizio era stato il 7 novembre 2003, data indicata dall’autore del sito per precisare il momento dell’inserimento di un contatore di accessi alla pagina), la documentazione offerta sull’accaduto è stata visionata 3.159.935 volte, un numero molto impressionante e ragguardevole di contatti per un sito così specifico e specializzato. D’altronde, il sito di Attivissimo appare sempre nei primi citati da qualsiasi ricerca nei motori sul caso che ci occupa qui.
29. In Paolo Attivissimo: «Foto agghiaccianti di un palestinese ucciso a sangue freddo da soldati israeliani…», cit. (link).
30. Il sito non è più accessibile nella rete e si può ritrovare in archive.org “Zionist Terrorism, Murder and Brutality!, URL: (link) per le versioni successive dall’ottobre 2002 al giugno 2004 con le varie didascalie in inglese. È da notare che la seconda fotografia viene data solo ingrandita con un piano che inquadra solo chi – il soldato israeliano – spinge a terra Saleh.
31. In Paolo Attivissimo: «Foto agghiaccianti di un palestinese ucciso a sangue freddo da soldati israeliani…»., cit. (link).
32. Anche qui la rete non offre più una pagina attiva, ma archive.org ha archiviato le versioni disponibili da giugno 2002 a febbraio 2004. Tuttavia manca la riproduzione delle immagini incriminate e soprattutto la riproduzione dei fotogrammi cancellati nel sito citato alla nota precedente. «Una campagna di disinformazione anti-israeliana in Internet: un esempio di come è facile trasformare le vittime in colpevoli» (link).
33. Israele Net, Notizie e Stampa, il portale di Israele in Italiano, URL: (http://www.israele.net/).
34. Cito qui per intero la loro versione: «sta circolando in Internet, in varie lingue, un’altra grave campagna di disinformazione anti-israeliana. Vengono mostrati alcuni fotogrammi di una tragica sequenza che termina con quella che sembra l’uccisione a freddo di un palestinese da parte di agenti di polizia israeliani. Le didascalie (che naturalmente non riportano né il luogo, né la data, né la fonte) accusano Israele di praticare esecuzioni sommarie a sangue freddo di inermi palestinesi già arrestati. È un falso. In realtà le immagini si riferiscono un attentato suicida, sventato dalla polizia israeliana. Ma dalla sequenza che viene fatta circolare dalla propaganda anti-israeliana sono state deliberatamente tolte le immagini che spiegano l’accaduto. L’incidente è avvenuto venerdi 8 marzo 2002, intorno alle 16.30, nel quartiere Beit Hanina (Gerusalemme nord). Sulla base di una segnalazione dei servizi di intelligence, alcuni agenti della polizia di frontiera israeliana fermano Mahmoud Salah, un terrorista palestinese munito di cintura esplosiva che si dirige verso il centro della città, e un suo complice che lo sta portando in auto. Una volta fermato e bloccato a terra, il terrorista tenta in tutti i modi di divincolarsi per fare esplodere l’ordigno. Il detonatore si trova sotto il suo addome, per cui al terrorista basterebbe esercitare la giusta pressione contro l’asfalto per innescare l’esplosione e uccidere, insieme a se stesso, gli agenti che gli sono addosso. È a questo punto che gli agenti israeliani sono costretti a uccidere il terrorista suicida. Essi hanno dunque agito in condizioni di legittima difesa e hanno sventato un attentato, cioè l’ennesima strage, mettendo a grave rischio la loro stessa vita. Nella sequenza completa si vede chiaramente che la polizia israeliana ha dovuto far intervenire un robot degli artificieri per disinnescare l’ordigno che il palestinese aveva addosso e che aveva tentato di far esplodere per uccidere se stesso e tutti coloro che gli stavano attorno. Ma l’immagine con il robot e la cintura esplosiva è stata accuratamente tolta dalla sequenza che viene fatta circolare dalla propaganda anti-israeliana [messa in evidenza sul sito stesso].Il complice del terrorista, che non rappresentava un pericolo per la vita dei presenti, è stato arrestato e condotto via del tutto incolume. Il giorno successivo, sabato 9 marzo, le Brigate Al Aqsa (affiliate al movimento Fatah) con una telefonata di rivendicazione confermavano che il “martire” Mahmoud Salah stava recandosi a compiere un attentato suicida nel quartiere Neve Yaakov di Gerusalemme». «Una campagna di disinformazione anti-israeliana in internet…», cit. (link).
35. Cit. (link).
36. «Uccisione: Brutalità israeliana e terrorismo mediatico», in LiberiPensieri.net, (http://www.liberipensieri.net/news/palestinese.asp) con il commento ripreso dal The Eletronic Intifada e la riproduzione di 6 fotogrammi invece dei 5 iniziali: «Queste immagini sono tratte dal sito The Electronic Intifada, mentre i trafiletti a lato sono stati tradotti e inviati via e-mail per “spiegare cosa succede”».
37. «Staff and agencies, Guardian Unlimited: Suicide bomber attacks West Bank settlement», «The Guardian», Thursday March 7, 2002: «The violence in the Middle East escalated again today when Palestinians mounted two bomb attacks in retaliation for the latest Israeli military strikes. A suicide bomber blew himself up in a supermarket at the entrance to a Jewish settlement in the West Bank, killing himself and wounding four bystanders. One of the wounded at the settlement of Ariel was in a serious condition, police said. Civilians thwarted another bomb attack in Jerusalem. Two men overpowered a Palestinian man carrying a bomb into a cafe in a trendy part of Jerusalem. The two men blocked the Palestinian man from entering the cafe and seized a backpack that had wires hanging out of it, Jerusalem police chief Micky Levy said. The men disconnected the wires and prevented the bomb from exploding. “A great catastrophe was thwarted in Jerusalem… thanks to the alertness of two residents,” Mr Levy told Israel Radio. The bomb attacks followed a dramatic escalation of military strikes by Israel and the killing of at least eight Palestinians earlier today. About 80 Israeli tanks and armoured vehicles rolled into the West Bank town of Tulkarem and surrounded two refugee camps, drawing fire from Palestinian gunmen […]», in (link)
38. «Undici fotografie prese da un fotografo dilettante dalla sua finestra a Gerusalemme est mostrano l’esecuzione sommaria di un militante palestinese ….», come viene dato in «Esecuzione di un terrorista», Notiziario “COLTIVIAMO LA PACE” – MERCOLEDÌ, 13 MARZO 2002, “GROWING PEACE TOGETHER” NEWS – WEDNESDAY, MARCH 13TH, 2002, del sito “GROWING PEACE TOGETHER” CULTURAL ASSOCIATION, URL non più attivo che si trova ora nell’archive.org (link).
39. Il 31 luglio 2005, R. B. Johannessen mandava un e-mail negando che ci fosse stata una cintura esplosiva, in «Controversy over ‘execution’ pictures, Submitted By: RJ», in (link).
40. A. Gunthert, L’image numérique s’en va-t’en guerre…, cit. (link).
41. Si veda l’interessante nota di C. Cechioli, Appunti su guerra, giornali, fotoreporter, in «AFT-Rivista di Storia e Fotografia», a. XIV, n. 28, dicembre 1998, pp. 37-43 che riflette sulle immagini della guerra del Kosovo nel 1999 e dell’uso che venne fatto allora delle immagini in funzione della propaganda dei due campi.
42. L’esempio è tratto dal sito del Ministero degli Esteri dello stato di Israele: «Do pictures always tell the truth?», in Israel Ministry of Foreign Affairs, 30 settembre 2002
(link). Nessuno dei due archivi storici del New York Times e del Boston Globe rinviano a questa fotografia per settembre 2002 anche se, negli archivi di rete di quei quotidiani, «articles do not include photos, charts or graphics…» (http://www.boston.com/news/) e (http://www.nytimes.com/).
43. P. Burke, Eyewitnessing. The uses of images as historical evidence, Ithaca, Cornell University Press, 2001, p. 22.
44. Un tentativo per fornire una scheda interpretative dei contenuti dei siti web è dato dal libro collettivo curato da A. Criscione, S. Noiret, C. Spagnolo e S. Vitali, La Storia a(l) tempo di Internet: indagine sui siti italiani di storia contemporanea, (2001-2003), Bologna, Pátron editore, 2004, pp. 31-33.
45. P. Burke, Eyewitnessing, cit., p. 21.
46. Messaggio elettronico di “Sighing world” [sigh_world@yahoo.com" target="_blank">sigh_world@yahoo.com], ricevuto in copia da [serge.noiret@iue.it" target="_blank">serge.noiret@iue.it], con soggetto “*** Actions than Words ***”, giovedì 28 aprile 2005, contenente 5 fotogrammi intitolati “crime-1-of-n.jpg”, crime-2-of-n.jpg, etc., con il commento nel corpo del messaggio: «Sorry to email these disgusting pictures about the unforgivable, unforgettable and undeniable crime committed by Japan in the Nanking Massacre during her invasion to China in World War II., Seeing this, you¡¦ll understand , Why generally Jew hate Germany Government in the PAST?, Why generally Chinese and Korean still hate Japan Government until NOW? We don’t mean to advocate or incite hatred, animosity among peoples. What we want is the JUSTICE that Japan Government is still owing to the world…». E con il riferimento al sito web (link) nel quale le fotografie vengono riprese insieme ad altri documenti della violenza nipponica.
47. I. About, C. Chéroux, L’histoire par la photographie, in «Etudes Photographiques», n. 10, novembre 2001, in Revues.org (link).
48. A. Mignemi, Ruolo delle fonti fotografiche nel lavoro dello storico, in a cura di C. Bermani. La nuova storiografia contemporanea. Omaggio a Claudio Pavone, Torino, Bollati Boringhieri, 2001.
49. G. D’Autilia, L’indizio e la prova. La storia nella fotografia, Milano, La Nuova Italia, 2001, p. 61.
50. Sull’uso delle fotografie nei media rimando ad A. Briggs, P. Burke, Storia sociale dei Media, da Guthenberg a Internet, Bologna, Il Mulino, 2002; a P. Ortoleva, La fotografia, in Il mondo contemporaneo, vol. X, Gli strumenti della ricerca, Firenze, La Nuova Italia, 1983; e Guerra e mass media. Strumenti e modi della comunicazione in un contesto bellico, a cura di P. Ortoleva, O. Chiara, Napoli, Liguori, 1994. Si veda lo studio sulla seconda guerra mondiale L’Italia s’è desta. Propaganda politica e mezzi di comunicazione di massa fra fascismo e democrazia, a cura di A. Mignemi, Torino, Gruppo Abele, 1995; e M. T. Sega, Lo specchio dotato di memoria: la fotografia, in Tempo, memoria, identità, Firenze, La Nuova Italia, 1986.
51. G. D’Autilia, L’indizio e la prova, cit., p. 61.
52. M. Gallai, L. Tomassini, cit., pp. 80-81.
53. S. Noiret, La fotografia storica su Internet oggi in Italia, in «Contemporanea», IV, n. 4, ottobre 2001, pp. 803-813.
54. Si rinvia per questo oltre a D’Autilia citato in precedenza, ad A. Mignemi, Lo sguardo e l’immagine: la fotografia come documento storico, Torino, Bollati Boringhieri, 2003. Sulle fotografie storiche in rete rimando al mio Alcune considerazioni sulla presenza di Fotografie Storiche in Rete in Italia, in Scatti di memoria. Dall’archivio fotografico della federazione delle cooperative della Provincia di Ravenna, a cura di L. Cottignoli, Ravenna, Longo, 2002, pp. 158-177; infine a M. Gallai, L. Tomassini, La fotografia di documentazione storica in Internet, in Nascita della storiografia digitale, a cura di D. Ragazzini, Torino, UTET, 2004, pp. 70-100.
55. L. Tomassini insegna quanto diverso è il significato comunicativo della fotografia pubblicata in un giornale da quello della stessa fotografia che viene invece ritrovata in archivio: L. Tomassini, Foto d’archivio e immagine pubblica della cooperazione, in Scatti di memoria, a cura di L. Cottignoli, cit., pp. 75-123.
56.A. Mignemi, Lo sguardo e l’immagine, cit., pp. 139-142.
57. Criscione sottolineava la convergenza tra vari media verso la rete e le specificità della rete come nuovo medium appartenente alla sfera comunicativa all’interno della quale diversi software e diversi approcci degli utenti tracciano canali di comunicazione multipli, A. Crescione, Ragnatele di Storia, in La Storia a(l) tempo di Internet,cit., p. 354.
58. Al processo di «convergenza» tra i media viene dedicato un intero capitolo da A. Briggs e P. Burke nella loro Storia sociale dei Media, da Guthenberg a Internet., cit., pp. 325-391.
59. A. Gunthert, L’image numérique s’en va-t’en guerre. Les photographies d’Abou Ghraib, «Études photographiques», n. 15, pp. 124-134 (link).
60. G. Fiorentino, L’occhio che uccide, cit.
61. La distinzione tra propaganda come termine usato genericamente per fare opera persuasiva in politica e propaganda in contesti bellici deve essere ritenuta qui come funzionale. Si veda su queste distinzioni, di J. Ellul, Histoire de la propagande, Paris PUF, 1967, (2a edizione consultata); G. S. Jowett, V. O’Donnel, Propaganda and persuasion., Newbury Park/California, Sage, 1992; Propaganda e comunicazione politica. Storia e trasformazione nell’età contemporanea, a cura di M. Ridolfi, Milano, Paravia-Bruno Mondadori, 2002;War and the media: reportage and propaganda, 1900-2003, a cura di M. Connelly, D. Welch, London, I. B. Tauris, 2005.
62. J. Taylor, Body horror: Photojournalism, catastrophe, and war, Manchester, Manchester University press, 1998, p. 6 e p. 8.
63. Le fotografie sono state tratte dall’Archivio storico foto Locchi di Firenze come illustrazioni del saggio di L. Toschi, Il multimedia d’autore. Un linguaggio per la memoria del futuro?, in «Memoria e Ricerca», n. 3, gennaio-giugno 1999, pp. 41-56, qui pp. 52-53.