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Venerdì 25 marzo 2011

Prolusione di Dante Bolognesi, direttore di Casa Oriani, alla seduta del Consigli provinciale e comunale

Dante Bolognesi

direttore Fondazione Casa di Oriani


Ravenna e la Romagna nel Risorgimento

Prolusione alla Seduta congiunta del Consiglio comunale e provinciale, 17 marzo 2011, sala Nullo Baldini

Festeggiamo oggi la nascita dello Stato italiano avvenuta a palazzo Carignano 150 anni fa. Un evento che agli osservatori del tempo parve un vero e proprio “miracolo”. Chi, soltanto qualche mese prima, almeno fino alla metà del 1859, avrebbe pronosticato che quell’espressione geografica che era l’Italia, per usare la nota definizione di Metternich, sarebbe diventata nel giro di poco più di un anno uno Stato - nazione ?: uno Stato, cioè, in cui la sovranità appartiene non a un singolo o a gruppi ristretti, come negli stati di antico regime, ma all’intera popolazione di un territorio, di una collettività cementata da una cultura, da una storia, da una lingua, da valori comuni.

Quel miracolo non veniva però dalla provvidenza o dal caso. E non è comprensibile nemmeno insistendo solo sulla pur decisiva opera di Mazzini, di Garibaldi, di Cavour. Esso non sarebbe stato possibile senza il lento, tormentato processo di incubazione, di diffusione, di condivisione di valori come l’indipendenza, la libertà, l’amore per il progresso, la dignità della persona, la giustizia: valori che non andavano astrattamente conclamati ma per la cui realizzazione da parte di molti si era disposti a offrire un impegno totale fino al sacrificio personale.

Di questo tormentato processo Ravenna e la Romagna costituiscono uno straordinario osservatorio tanto che i modi con cui le nostre città hanno vissuto l’epopea risorgimentale ne hanno contrassegnato la storia, l’immagine, il sentire collettivo. Vediamo allora alcuni momenti, alcuni episodi, alcune date di quel tormentato processo.

Partiamo da un evento avvenuto esattamente un anno prima dalla proclamazione del Regno d’Italia, che vede sulla scena uno dei protagonisti dell’unificazione, un romagnolo, il russiano Luigi Carlo Farini.

Il 18 marzo 1860 Farini, “dittatore dell’Emilia e governatore delle Romagne”, veniva accolto trionfalmente a Torino. Farini recava i risultati delle votazioni svoltesi l’11 e il 12 marzo in cui gli elettori delle province emiliane e romagnole si erano espressi sul quesito se essere annessi al regno di Sardegna o costituirsi in realtà autonome. I risultati erano stati plebiscitari. Su 526.218 iscritti nelle liste elettorali avevano votato in 427.512 e i favorevoli all’annessione erano stati 426.006. Nella sola provincia di Ravenna su una popolazione di circa 230.000 abitanti i favorevoli erano stati oltre 38.000 e solo 54 coloro che avevano aderito alla proposta di un regno separato.

Dietro al successo del “plebiscito” del marzo 1860 vi era certamente la sapiente regia di Farini e Cavour. E non va nascosto che i cittadini che potevano partecipare alle votazioni costituivano una minoranza: dovevano avere compiuto 21 anni e godere dei diritti civili (erano quindi esclusi le donne, gli analfabeti e i nullatenenti). Ma non pare dubbio che nelle città romagnole la caduta del governo pontificio e l’unità nazionale fossero salutate con generale entusiasmo. Basta leggere la cronaca di quegli eventi nel diario di un uomo misurato come Giuseppe Pasolini.

Qui tocchiamo il grande tema della partecipazione popolare al Risorgimento. Un tema fra i più dibattuti nella storia italiana dell’Ottocento che ha visto il confronto, anche fortemente polemico, fra orientamenti e interpretazioni divergenti. Non lo posso certo riprendere. Ma va almeno ricordato, come ha fatto recentemente Fulvio Conti, che negli ultimi anni molte ricerche hanno spazzato via l’idea diffusa che esso sia stato un fenomeno esclusivamente d’élite.

Queste ricerche hanno spostato l’attenzione sui fattori culturali (simbolici, emotivi, passionali) che hanno dato origine al Risorgimento, su soggetti fin qui trascurati (le donne, le famiglie, i parenti), sugli ambienti in cui circolavano, venivano ascoltati o letti romanzi, opere liriche, dipinti, stampe popolari. Ambienti che, attraverso queste reti di relazioni, anche affettive, queste letture e queste rappresentazioni, scoprono il sentimento nazional - patriottico e lo vivono con vera partecipazione. E da cui trae linfa il fenomeno del volontariato che assume dimensioni impressionanti. Pensiamo alla partecipazione delle città in rivolta nel biennio 1848-49, ai volontari che combatterono nel 1859 nell’esercito regio e nei Cacciatori delle Alpi, alla stessa spedizione dei Mille che alla fine della vicenda erano diventati 30.000 . Una minoranza, dunque, ma tutt’altro che esigua come spesso si è scritto.

Per Ravenna (e per la Romagna) questo problema storiografico quasi non si pone: non si pone perché la convinzione che il movimento patriottico sia stato un fenomeno diffuso e che ad esso abbiano partecipato uomini della più diversa estrazione sociale, soprattutto giovani, è radicata da sempre, fin negli stessi protagonisti dell’epoca, da una parte e dall’altra dei contendenti. Basta ricordare i giudizi di Giuseppe Mazzini e di Massimo D’Azeglio negli anni ’30 e ’40, o ai rapporti di polizia di quegli stessi anni. Si legge in uno di questi come, oltre a buona parte dell’aristocrazia e della borghesia ravennate, “la gioventù è tutta guasta e corrotta professando massime diaboliche. Si comprende fra questa gioventù non solo i figli di agiate e civili famiglie, ma anche tutti coloro che esercitano mestiere, i quali oltr’essere rivoluzionari sono i più sacrileghi bestemmiatori”. Questo rapporto di polizia è dei primi anni ’40. Ma già prima la sentenza del cardinale Agostino Rivarola il 31 agosto 1825 aveva svelato un fenomeno di cui fino allora si aveva avuto solo una vaga percezione.

Il cardinale Agostino Rivarola, legato (oggi diremmo prefetto) di Ravenna, era stato inviato in Romagna proprio per porre fine ai disordini delle province e alla sequenza impressionante di delitti politici. L’ultimo era stata l’uccisione del comandante della polizia a Ravenna da parte di una setta di carbonari. La sentenza era stata durissima. Dei 715 inquisiti ne erano stati condannati oltre 500: fra questi 7 alla pena di morte, 6 all’ergastolo, 29 a vent’anni di galera, 16 a quindici anni, 37 a dieci anni (pene poi mitigate).

Quello che stupisce non è solo il numero degli inquisiti e dei condannati, davvero significativo se pensiamo che la popolazione delle due province arrivava a malapena a 300.000 abitanti, ma anche la presenza di tutti i ceti sociali, dai notabili ai possidenti, dagli osti ai fornai, dai maniscalchi ai falegnami, dagli avvocati ai medici e così via fino a incontrare anche impiegati governativi, e persino un cancelliere vescovile.

La sentenza non pose fine all’irrequietezza della provincia e la Romagna si trovò spesso in prima fila nella partecipazione ai moti: nel 1831-32, nel 1843, nel 1845, nel 1848-49, e così via fino al 1859.

Quali sono gli obiettivi politici di questi moti?

Inizialmente si erano limitati a rivendicare più o meno caute riforme dal parte del governo pontificio (invocate anche dalle potenze straniere, dalla stessa Austria, nel memorandum del 1831); poi nel corso degli anni trenta si passò non senza incertezze a aperti programmi nazionali sia di orientamento democratico e repubblicano grazie alla Giovine Italia, sia di orientamento più moderato con Luigi Carlo Farini e altri patrioti sempre più vicini al Piemonte e a Cavour, che appariva come l’unico riferimento realistico nel complesso gioco di forze internazionali. Ma la vera svolta avviene nel 1849 grazie alle decisive esperienze di politicizzazione che furono la Repubblica romana, nella capitale e in periferia, e la trafila con cui fu portato a salvamento Garibaldi nell’agosto 1849. La trafila in particolare, con la leggendaria figura di Garibaldi, divenne immediatamente un mito, un collante per le nostre genti in cui esse si scoprirono protagoniste delle vicende risorgimentali. Ma decisive soprattutto perchè quelle esperienze aprivano orizzonti nuovi all’azione politica e patriottica. I moti precedenti erano rimasti ristretti in un’ottica sostanzialmente municipale, privi di sbocchi e di coordinamento (di qui le critiche di Mazzini, di d’Azeglio, di Farini). Ora, con la Repubblica romana e la trafila si sedimenta la consapevolezza della trama nazionale delle rivendicazioni: che le sorti, le libertà, del proprio municipio, della propria piccola patria sono legate in modo indissolubile a quelle della nazione; le une non possono vivere senza le altre.

Certo, anche in Romagna l’adesione agli ideali repubblicani o semplicemente unitari riguardava pressoché esclusivamente il mondo urbano. Le campagne erano rimaste in grandissima parte escluse dalla politicizzazione e lo rimasero ancora per alcuni decenni. Non possiamo stupirci: oltre il 90 per cento della popolazione rurale era analfabeta e l’isolamento delle famiglie mezzadrili nei poderi non aiutava la loro emancipazione. Ma anche le campagne non vivono tempi tranquilli e sono scosse da crescenti tensioni e segni di acuto malessere. Il peggioramento della condizione contadina e il conseguente brigantaggio ne sono le spie più evidenti. Non posso soffermarmi su questi aspetti, ma vorrei almeno ricordare un evento fondamentale che ha luogo nelle campagne, e che solo apparentemente non ha legami con la storia risorgimentale: la rotta rovinosa del fiume Lamone alle Ammonite del 7 dicembre 1839, altra data simbolica per Ravenna, da cui ripartirà il processo di bonifica del nostro territorio con tutte le conseguenze sul piano sociale, politico, economico che sappiamo.

Un altro aspetto va sottolineato nel cercare di delineare i tratti peculiari o quanto meno più appariscenti del Risorgimento in Romagna. Ed è il fatto che la partecipazione alla vita politica viene sempre più mediata attraverso le tante forme associative e luoghi di incontro e di sociabilità: dai circoli costituzionali negli anni giacobini di fine ‘700 alle sette carbonare negli anni della restaurazione, dai comitati della Giovine Italia negli anni ’30 e ’40 alle unioni ausiliarie, ai circoli popolari e alle cosiddette “squadracce” nel biennio 1848-49, dalla Società nazionale alla vigilia dell’unificazione alle società del progresso immediatamente dopo. Ma non solo queste, di carattere dichiaratamente politico. Accanto a queste convive una pluralità di luoghi di aggregazione sociale: le confraternite, le compagnie di mestiere, le associazioni assistenziali, quelle ricreative, per non parlare di bettole e osterie della cui proliferazione e pericolosità sono piene le carte di polizia. Questi luoghi di ritrovo dei ceti popolari non offrono solo occasioni di svago, di divertimento, di sostegno economico; offrono anche occasioni di confronto, di discussione, di diffusione dei discorsi politici e delle idee patriottiche. Già all’indomani dell’unificazione, nelle prime inchieste svolte nel 1862, la particolare densità delle associazioni in Romagna era un elemento che balzava agli occhi. La Romagna venne poi sempre più identificata come “la terra delle associazioni”, come ha mostrato Maurizio Ridolfi, proprio per la precoce e originale capacità degli esponenti del mondo repubblicano prima (la grande intuizione di Aurelio Saffi), poi di quello internazionalista, socialista, cattolico, di “politicizzare” il preesistente associazionismo urbano di matrice popolare. E, successivamente, di rivolgersi anche al mondo rurale. E politicizzare va qui inteso nel senso più alto: come la sentita opera di educazione civile, di insegnamento e guida ai valori di libertà, progresso, giustizia, lavoro che il nuovo Stato avrebbe dovuto incarnare. Non solo. Gli aderenti di quelle associazioni sperimentavano, apprezzandoli, nuovi strumenti di partecipazione democratica (assemblee, commissioni di lavoro, organismi dirigenti elettivi e periodicamente rinnovabili).

Dunque, largo coinvolgimento e spirito associazionistico appaiono come momenti centrali dell’epopea risorgimentale e della costruzione dello stato unitario a Ravenna e in Romagna.

Ma appunto per questo, per il largo coinvolgimento popolare, gli esiti del processo di unificazione, unanimemente condiviso, non appagarono tutte le aspettative e le speranze. Molti protagonisti di quegli eventi non si riconobbero nel Paese così come era uscito dalle lotte per l’indipendenza e che avevano sognato. O meglio, l'unificazione era solo la tappa assolutamente necessaria, a lungo agognata e finalmente realizzata, di un percorso che prevedeva nuove prove e nuovi traguardi.

A Ravenna il confronto sull’eredità del Risorgimento fu così tutt’altro che concorde nei decenni seguenti. Il movimento democratico repubblicano, seguito poi da quello socialista e anche da quello cattolico, non si confuse con le posizioni monarchiche e liberali impegnate a costruire un’immagine pacificata del processo di unificazione nazionale in cui Garibaldi, Mazzini, Cavour e Vittorio Emanuele II avrebbero concordemente collaborato. Si operava una mistificazione profonda del processo di unificazione, trascurando i contrasti e le divisioni tra personaggi e progetti che erano state significative. Ma, come ha scritto Massimo Baioni in un recente libro intitolato significativamente "Risorgimento conteso", non si trattava di una semplice “operazione trasformistica”. Bisognava “fare gli italiani” e una pedagogia patriottica di facile comprensione e di forte coinvolgimento emotivo poteva sopperire alle molte fratture e fragilità, inevitabili per uno stato appena nato (la questione meridionale, il brigantaggio, lo scontro con la Chiesa, le differenze regionali, l’arretratezza di molte parte del paese, ecc.).

E soprattutto va sottolineato che vi era un reale terreno culturale condiviso fra i moderati e i democratici: l’indipendenza, l’unità del Paese, la formulazione della sovranità sulla base dei concetti di rappresentanza e di Costituzione, fondamentale nel nuovo Stato - nazione. Dove non si doveva più essere sottoposti all’arbitrio del principe, non si doveva più contare sul suo favore o temere la sua avversione, come accadeva negli stati assoluti di antico regime. Nel nuovo Stato si era tutti cittadini con uguali diritti e doveri sanciti nella Carta una volta per tutte, che anche l’eventuale monarca di turno non avrebbe potuto calpestare.

Per queste ragioni profonde di unità, per questi valori comuni, l’eredità del Risorgimento non si è persa nel nuovo scenario dello stato unitario e la sua memoria, anche se da angoli assai diversi (o forse proprio per questo), è stata coltivata con passione e dedizione. Lo testimoniano tante iniziative ravennati: la costruzione dei monumenti a Luigi Carlo Farini, a Garibaldi, ad Anita, della tomba ai “salvatori” di Garibaldi nel cimitero monumentale, le celebrazioni garibaldine del 1907. Lo testimonia la vitalità, la forza della memoria della trafila, del capanno Garibaldi, della fattoria Guiccioli dove Anita si era spenta: luoghi simbolo che diventarono tappe di una liturgia laica, da allora rinnovata ogni anno grazie agli eredi di quell’associazionismo risorgimentale e di quel volontariato che sono stati grande parte del Risorgimento.

La partecipazione massiccia dei ravennati alla vita politica si afferma così nel corso del Risorgimento e dei primi anni dello stato unitario. Da quei decenni ad oggi ha rappresentato uno degli elementi costitutivi e vantati dell’identità locale. Antonio Beltramelli lo testimoniava con enfasi nei primi del Novecento quando scriveva che “non è uomo valutabile colui che non sia ascritto a un partito qualsiasi. Chi non si proclama propugnatore di qualche forma politica non godrà mai piena stima in Romagna. Vi è un solo dio: la politica”.

Questa partecipazione ha arricchito la vita civile di queste comunità, ha dato loro un tenore, un tratto particolare alla gran parte delle sue manifestazioni collettive, anche nei momenti istituzionali delle elezioni da cui sono partito ricordando il plebiscito del 1860: i riconoscimenti in quell’occasione, poi nel referendum per la Repubblica del 1946, nelle elezioni europee del 1979 e del 1989 costituiscono in fondo un fondamentale filo rosso nella storia recente di Ravenna. Un filo rosso che, credo, non bisogna stancarsi di ricordare, soprattutto ai giovani, certo con strumenti comunicativi nuovi, e anche dopo queste celebrazioni del 150°, ma con lo stesso impegno di pedagogia civile che contraddistinse gli uomini migliori del nostro Risorgimento, tenendo vive quelle memorie e quei valori che, dalla costruzione dello stato unitario, hanno legato profondamente le nostre comunità alle istituzioni rappresentative, locali e nazionali, facendole sentire come proprie: un filo rosso che, speriamo, non venga mai smarrito.



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